Un buon metodo per selezionare gli amici potrebbe essere domandare ai potenziali candidati se non gli dispiaccia andare al cinema di pomeriggio. E’ stata una delle prime cose che ci siamo detti, io e Pietro, che preferiamo andare al cinema a quelli spettacoli in cui se va bene ci saranno si e no una decina di spettatori, in cui la sala non è ancora ricoperta da un strato scricchiolante di pop corn e bottiglie di plastica, in cui quando si esce c’è ancora la luce, pure d’inverno.
Qualche giorno fa ho preso il treno, e sono andata a trovarlo, Pietro, che vive in una città faticosamente collegata alla mia da un incastro di regionali che attraversano paesi con nomi mai sentiti prima, di cui alcuni così poco degni di nota da non meritare nemmeno una stazione tutta per loro, no, solo una specie di generico fermo posta per esseri umani. San Benedetto Val di Sambro – Castiglione dei Pepoli. Musiano – Pian di Macina. Lungo il tragitto, edifici a due o tre piani con tende da sole verdi di muffa, balconi privi di piante, serrande abbassate, fumi sfilacciati che si sollevano dai comignoli. Le facciate ingrigite, non tanto per il clima umido o per l’inquinamento, ma per la tristezza di dover risiedere eternamente in un luogo di passaggio. Per la condanna a non poter essere guardate che per qualche breve secondo, da un viaggiatore distratto.
La città dove vive Pietro è un luogo in cui gli eventi accadono, mentre nella mia fatti già accaduti in tempi lontanissimi tendono a conservarsi fino a sembrare preesistenti alla città stessa, ai suoi marciapiedi ragionevolmente puliti, al fiume che l’attraversa, agli alberi che ne percorrono i viali.
I regionali sono tutti in ritardo, le fermate intermedie si prolungano aggiungendo prima minuti e poi ore al momento stimato per l’arrivo. Alla fine, al cinema dovremo andarci la sera.
Quando viene a prendermi al binario, Pietro mi racconta che in alcuni quartieri ci sono stati disordini dovuti a opinioni discordanti sulla destinazione dell’arte e sul ruolo dell’artista, sul concetto di autore e di proprietà dell’opera, sul senso dell’espressione “degrado urbano”. Ne hanno parlato tutte le maggiori testate, è stata una cosa che ha generato scalpore. C’è chi si è indignato, chi si è profuso in lodi per gli attivisti e per la causa, e chi semplicemente ha ripetuto cose sentite dire da qualcun altro, tanto per sentirsi meno solo. Da dove vengo io, le questioni sono molto più prosaiche. I lavori per la tramvia che rallentano il traffico in direzione ospedale, il fatto che i supermercati non restino aperti la domenica, la diatriba sull’effettiva integrabilità nel paesaggio di un nuovo edificio dalle linee troppo moderne.
Ceniamo seduti ai tavolini di un bar lungo una via del centro, con i cappotti aperti. E’ quasi primavera, la strada si riempie di gente e l’aria è bella intorno a noi. Domani potremmo andare in campagna, mi propone, ho visto che dovrebbe esserci il sole. Gli rispondo che mi sembra una buona idea e poi, non so perché, inizio a ripercorrere mentalmente il tragitto che ho fatto poche ore prima in treno. La successione delle fermate, i pannelli antirumore con piccole rondini dipinte per evitare che gli uccelli veri ci si schiantino contro uccidendosi, ingannati dalla trasparenza. Faccio da capo tutto il viaggio, oblitero mentalmente biglietti fatti al volo in stazioni di cambio, rivedo gli alberi scuri dell’Appennino, poi scendo in Centrale e cammino fino al bar, fino allo sgabello su cui sono seduta. Sono di nuovo intera.
Paghiamo e ci incamminiamo verso il cinema. Stasera vedremo il nuovo dei Coen, in cui un gruppo di ferventi comunisti rapisce una star del peplum, una diva del genere acquatico resta incinta di non si sa chi e un cowboy viene trapiantato in un salotto da bridge. Ci sono un sacco di attori famosi e in poco meno di due ore succedono tantissime cose divertenti. Il biglietto costa otto euro e cinquanta, un po’ di più che dalle mie parti, e lo schermo è uno dei più grossi che abbia mai visto.
Anche se il film mi piace, non riesco a seguirlo. Pietro è stanco, ha avuto una settimana lunga, ogni tanto ride e sbadiglia insieme. Sento il rumore della vita là fuori, vorrei dirgli. E’ una specie di boato assordante, come se tutti i fiori del mondo stessero sbocciando nello stesso istante, come se tutte le forchette del mondo stessero cadendo nello stesso istante, come se tutte le persone del mondo si stessero voltando nello stesso istante. Sono miliardi di insetti che hanno scelto di diventare farfalle contemporaneamente, sterminati banchi di pesci che si inseguono nell’oceano per accoppiarsi, le sirene di ogni singola fabbrica sulla faccia del pianeta sincronizzate per suonare all’unisono. Ci sono cose che scoppiano sopra e sotto la superficie terrestre, stelle che deflagrano illuminando il cielo con enormi fuochi d’artificio, e anche la più piccola goccia del mare si sta trasformando in un’onda che si riversa in un’onda che si riversa in un’onda sempre più grande, sempre di più, sempre di più, fino a sembrare una montagna azzurra. Cosa ci facciamo seduti qui, non lo senti anche tu? Ascoltala, ci sta chiamando.
Questo vorrei dirgli, e invece non gli dico proprio niente.
Rimango in silenzio, fino alla fine.
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