Stamattina mi sveglio dopo tre difficili ore di sonno: le coperte appallottolate sul lato corto del letto. Ho freddo. Mi alzo e mi lavo parzialmente la faccia, solo le zone più rilevanti per una corretta gestione dei rapporti sociali. L’aria è fresca anche se ad Aprile non mi sarei mai immaginato che alle sette di mattina fosse possibile uscire in maglietta.
Dopo circa un’ora sono seduto in una stanza vuota ad attendere l’arrivo di alcune persone che, essendo sindacalisti, hanno un concetto della puntualità molto ma molto relativo. Dopo circa un’ora e mezzo di solitudine con tutte le sue alterne fasi (incazzatura, ansia, preoccupazione di aver sbagliato il giorno o l’ora, incazzatura, incazzatura, [brucerete all’inferno sindacalisti, perché se solo voi faceste per bene il vostro lavoro, saremmo tutti con voi], rassegnazione) scopro di trovarmi davanti ad una grossa locandina blu, che lentamente, molto lentamente metto a fuoco.
La grandiosità della Cineteca di Bologna è che restaura ogni anno una dozzina di capolavori della storia del cinema, in pieno contrasto con la volontà della nostra epoca di stare sempre sul pezzo, in questa obsolescenza della creatività talmente caleidoscopica che ci sarebbe bisogno prima di tutto di una rivoluzione dell’occhio umano. La politica reazionaria della Cineteca di Bologna ci lascia talvolta basiti, non solo per la scelta parzialmente anticommerciale delle pellicole meritevoli di essere salvaguardate dall’oblio, ma anche per la grandiosità delle locandine che di volta in volta propone. Questo Aprile la locandina per il grandissimo film di Louis Malle Ascensore per il patibolo è magnifica, nel mattino, mentre attendo l’arrivo dei sindacalisti. Le sfumature cobalto e cerule dello sfondo fanno emergere quasi tridimensionalmente l’intensità del volto di una Jeanne Moreau talmente graziosa da avere i capelli oltremare, le gote cilestrine, la bianca mano che si erge tramite il dito indice a colonna portante di labbra blu Prussia, in quella che potrebbe rappresentare una posa dolente e assassina di una condizione femminile in trappola, che potrà emanciparsi retrospettivamente solo attraverso il lutto della veste. Pervinca la ghigliottina posta sopra il titolo, accanto alla lattea affermazione che le musiche sono state composte da Miles Davis. Le poche espressionistiche pennellate di luce nivea tra i capelli o nell’imbottitura del cappotto si lasciano intravedere prospetticamente solo da un occhio maschile che sbircia tra gli spazi aperti della mise, mentre quello femminile di rimando getta su noi tutti uno sguardo cupo e triste del solo colore blu che non ha più scampo.
Questa locandina non fa che confermarci che pur trattandosi di una versione restaurata, siamo pur sempre destinati al patibolo.
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