di Clara Galletti
Non ho mai voluto fare l’insegnante. Da piccola ho ripudiato la scuola e da grande ho trovato la pedagogia troppo noiosa. Non avevo la vocazione e non sentivo nessuna missione se non quella della stipendio, del resto mi importava poco. Ho accettato l’incarico solo perché la mia vita si era stagnata, era rimasta troppo uguale per troppo tempo e avevo bisogno di un cambiamento.
Facendo i conti con la realtà ho invece sperimentato che se modifichi l’impostazione della sveglia, mandi automaticamente all’aria la routine di tutta la settimana. Inizi spostando un quadratino dalla tabella di marcia e finisci per rivedere tutto lo schema. Un cambiamento provoca un cambiamento che provoca un cambiamento che provoca un cambiamento e avanti così per tutte le tessere del domino.
E le cose sono cambiate così tanto che dopo una vita passata dietro al banco, sono finita a stare dietro la cattedra. Il posto è più scomodo di quanto credessi ed io non riesco a sedermici. Passo le ore a contorcermi e a cambiare posizione, ma non riesco a stare comoda. Non so stare composta e dovrei rimproverare i ragazzi che si allungano sul banco o si dondolano sulla sedia?
Dovrei insegnare ai ragazzi che la scuola è il luogo sacro della cultura e merita il rispetto della postura corretta. Vorrei dirgli che devono imparare a stare dritti e a rimanere composti, non per farmi un piacere ma per lasciare che sia lo studio a modellarli. Gli curverà le schiene sulla scrivania, gli intorpidirà le gambe ferme sotto la sedia, gli stancherà la vista, gli arrossirà i gomiti che reggeranno la testa. Qualcuno si lascerà forgiare, qualcun altro opporrà resistenza ma tutti sentiranno questa forza e la colmeranno di ricordi.
È questo ciò che penso mentre aspetto che inizi il colloquio con i genitori. Poi entra la mamma di M.P. e i miei pensieri si fermano. Parliamo dell’alunna, del rendimento scolastico, del comportamento, delle assenze. La madre mi interrompe: “mia figlia parla sempre di lei, la adora”.
Il mio corpo, invece di rispondere con la voce, preferisce sudare. E sudo lasciando quell’alone bagnato sotto le ascelle che mi fa sentire chiaramente a disagio. Perché? Perché per la prima volta da quando mi chiamano prof. mi ritrovo a smuovere quel masso di apatia e depressione che avevo gettato sul lavoro e a pensare che forse la scuola si merita una seconda possibilità.
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