di Carlo Benedetti
La bellezza della magnolia di Piazza Beccaria è imbarazzante: quei rosa pastello, la quantità di petali carnosi, i boccioli che puntano al cielo. È impossibile passarci accanto senza un sottile senso di colpa nascosto sotto gli sguardi ammirati. La magnolia di Piazza Beccaria è terribile come sono terribili gli orsi o i leoni. Ogni anno ti sorprende fiorendo quando ancora tu speravi fosse pieno inverno, che ci fosse ancora tutto il tempo prima di dover fare i conti con il caldo, le magliette corte, le vacanze. Un altro anno passato, l’ennesimo compleanno, la speranza esausta. I matrimoni degli altri, i figli degli altri, gli amori degli altri.
La magnolia non sa nulla. Fiorisce, sfiorisce, germina foglie verdi che scuriscono e cadono. La magnolia non pensa, vuole acqua e sole, aspetta il caldo per fiorire e il freddo per perdere le foglie. Ma anche dire ‘aspetta’ è una metafora sbagliata: la magnolia non aspetta nulla. È irreparabilmente estranea, non sa di essere bella. Non sa perché a marzo le viene quella voglia di ricominciare da capo un altro giro. Né perché in ottobre sia così stanca, disgustata da tutti i passi e le chiacchiere e le mani che palpano, borseggiano, stringono, sorreggono, elemosinano e si chiudono a pugno in un cazzotto ripetuto e metodico. La magnolia è vuota proprio come io e te che camminiamo avanti e indietro fra questi due semafori, senza alternative, senza pensieri in testa, senza sapere dove andare.
Istintivamente odio la magnolia. Se smettessimo di passeggiare qui intorno, non significherebbe nulla per lei. Se tutti e per sempre smettessimo di passarle accanto, per un’epidemia, un’estinzione di massa, lei continuerebbe a fiorire e sfiorire. Io la chiamo cattiveria. Allora, specie quando sta per piovere e c’è per aria quella luce da fine del mondo – così convincente che ti guardo per vedere se anche tu sei spaventata – mi aggrappo ad uno dei rami più grandi e inizio a scuotere cercando di spezzarlo. E urlo, urlo quanto posso e le dico esattamente cosa penso di lei, quanto mi faccia schifo quel suo distacco, che non significa nulla, che basterebbe un fiammifero. Allora tu, paziente, cammini sull’erba sporcando le scarpe e appoggi una mano sulla mia spalla, aspettando che mi stanchi. Poi mi accompagni di nuovo dall’altro lato della piazza, dove è più calmo, dove la torre la copre e né io né te la vediamo più. Mi spieghi per l’ennesima volta che anche la magnolia a suo modo vuole, è felice, ma non come noi. Che dovrei imparare che anche lei è al suo posto, come tu e io. E io ti dico di sì, certamente, che sono uno stupido, che se non fosse per questo cielo, queste nuvole oro matto, questo bisolfuro di stagno su sfondo rosato… Ma c’è sempre una parte di me che non ci crede, che è convinta che la magnolia sia un’aberrazione, come tutto quello che non siamo io e te. Che l’universo dovrebbe essere ridotto a noi due, sospesi in un vuoto immenso e piccolo, senza confini.
E, sempre, ogni singola volta, il vento tira giù un petalo della magnolia, l’ultimo rimasto chissà dove, che io avevo controllato ramo per ramo e non ce n’erano più, e lo porta via lungo i viali vuoti in attesa del verde.
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