di Agostino Bimbo
La sorella di Federica Bottazzi è una strega. E non la chiamo col nome che si merita, marescià, che stasera voglio essere educato. Ma le ripeto per la centesima volta, se mi chiede che fine ha fatto il pupo: non lo so.
Lo domandi alla sorella, alla madre vera. Quella Atvalvina, o come si chiama lei.
Io so solo chi è il fesso della situazione. Vivo per miracolo, col boosterino mio che è esploso, mezza campagna di Ciciliano in fiamme… e Federica che non mi telefona più. A me. Che avrò messo duecentomila lire di benzina, per lei, da quando è finita la scuola.
Centocelle Ciciliano Ciciliano Centocelle.
Ogni giorno. Motore a tutta callara. Marmitta incandescente: c’ho sempre una bottiglia d’acqua appresso per farla svaporare. Tranne ieri sera, s’intende. E s’è visto il risultato sulle stoppie della rinomata prateria cicilianese.
Ma Federica è la fissa del sottoscritto. Che se c’ha una colpa è quella di averle fatto compagnia in questa estate der cazzo. Con la famiglia sua disastrata. Orfane. Da una casa popolare all’altra. Tre mesi in quel motel di Ciciliano dove l’ha abbandonata Antivlina per spassarsela col Grande Maiale del zito suo.
Mi creda: a casa loro, a Monte dell’Olmo, è tutto un Paperotta, stasera ti stropiccio le piume, Una frustatina sui fianchi è una cosa che fa sognare… Per non parlare delle parrucche per i travestimenti, le manette, i cortelli insudiciati per i giochetti sadici, i posacenere zeppi di sigarette gialle.
Ripeto: gialle. Roba stupefacente. Contrabbando coreano.
E io a patire, marescià, per due bacetti mosci.
Le prime volte era tutto un Brutto figlio di una puzzola! C’hai la zucca ballerina, tu! Parla così, Fede. Mi fa impazzire. Io vergine fino al matrimonio: non sono come mi’ sorella.
E llo so. Evvabbé. E allora: Centocelle Ciciliano Ciciliano Centocelle. Pazienza zen e secchiate d’acqua sulla marmitta. Fino a ieri sera, che tra una settimana si torna a scuola e voleva quagliare, il poveraccio qui presente.
Metta a verbale, marescià.
Ore 21: Centocelle Ciciliano. M’ero scordato la bottiglia salvatrice, però. C’avevo altri pensieri.
Ore 22.30: bacetti introduttivi, in crescendo.
Ore 23: pomiciata palpeggiante, ispirata, su panchina lignea abituale.
Ma Federica: «Basta».
«Che cosa sono venuto a fare?» Dico io, inesorabile, mentre lei rimbocca la coperta al pupo: l’ultima volta che l’ho visto – segni, marescià: ore 23.35.
«Dai scusa, vieni».
«Ma io non l’ho mai fatto!» Fa Federica: ‘na santa.
«Guarda che è bello… è bello davvero». Che potevo di’, marescià?
Tuffo fra le erbacce. Comodi comodi nella zizzania cicilianese.
Dalle 23.40: blackout.
Mi riprendo col botto del boosterino saltato in aria, la campagna che divampa e il pupo dell’Antanivilma volatilizzato.
Dove sta? Per me può sta ovunque. Se lo so’ preso gli zingari. Gli alieni. O se l’è risucchiato la segheria abbandonata lì vicino – preferisce?
Chessò: blitz del Gis.
Importante traffico d’armi proveniente dai paesi dell’est, forse materiale radioattivo – Ciciliano se sa, è piena de ggente pericolosa. E così – non voglio eroi ma nemmeno martiri – quelli sfondano. Caramba coi mitra in mimetica, ululati da mohicani, sparatorie a braccia rovesciate, bombe a mano, cunicoli fluorescenti, un arsenale da guerra in bare con la croce esplicativa – fossero mai mussurmani.
E il pupo? Glielo ripeto in turco, marescià, in reatino…
Fuori sincrono: non-o-no-so–lo-so.
So solo quante curve c’ha la strada da Centocelle a Ciciliano. E che stavo morendo per una scintilla di marmitta Polini de li mortacci mia di quando l’ho montata.
Federica sconvolta: «Tigrotto… dammi la mano, forza. Sei ferito?» Questo me basta. Che questo si chiama voler bene, marescià: Tigrotto, a me, non me l’ha mai detto nessuno. Non come la sorella sua, a smaialare per l’Italia. Col bambino abbandonato nelle steppe del preappennino. Quella stronza di Antivalva.
Atvalevia, o come si chiama lei.
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