Per quanto avessi sbagliato, lui era sempre mio padre. Non avrebbe dovuto, che ne so, fare uno sforzo? Quando ero bambino, piangendo, smettevo di respirare e ci voleva un suo schiaffo per farmi ripartire. Correvo nel suo studio e a gesti lo imploravo di prendermi a schiaffi. Non per finta, uno schiaffo vero, pesante. Allora i polmoni si aprivano di nuovo e potevo continuare a piangere da solo, senza disturbare nessuno. Ero terrorizzato all’idea che succedesse quando lui non c’era. Non succedeva mai.
Il suo aiuto era una trappola, sempre rivolto a chi avrei dovuto essere e mai a me. Non avrei dovuto piangere, né giocare con le bambole, né leggere per giornate intere. Non avrei dovuto desiderare altro che diventare lui.
Mia moglie sta andando a trovare Giovanni in carcere. Dovrei andare anch’io. Dovrei prendere le chiavi, guidare fino a Sollicciano, sedermi e seguire la procedura prevista per i colloqui con condannati, internati, appellanti e ricorrenti. Dovrei presentarmi allo sportello dell’ufficio ‘Rilascio colloqui’, fornire i miei documenti, farmi perquisire, depositare gli effetti personali, e aspettare. Poi seguire l’operatore penitenziario e fissare mio figlio attraverso un vetro per mezz’ora.
Cosa potremmo dirci? Che avrei dovuto fare uno sforzo? Che sono comunque suo padre? Che, in definitiva, mio padre ha vinto, che sono come lui?
La vedo uscire, ormai non me lo chiede neanche più. Ci impiega un paio d’ore fra andare e tornare. Io le passo seduto qui, a guardare la tv: una partita o la replica di un vecchio telefilm. Mi piacciono i documentari: deve essere facile per un’orsa allevare i propri cuccioli, non decidere nulla, vivere di solo istinto, trovare cibo e tenerli al sicuro finché non sono abbastanza grossi per farlo da soli. Allora non rivederli più. Magari dimenticarsene, a poco a poco, fino ai nuovi cuccioli, fino a morire.
Io non lo so, non so cosa dovrei fare. Passo la vita ad amministrare il presente, mantenendo tutto in equilibrio. Mai un rischio, mai una parola di troppo: essere amato da tutti. Gestisco la vita evitando le perdite, godendomi le piccole gioie che non disturbano: un caffè, un libro in treno, baciare mia moglie al cinema. Mi avevano detto che sarebbe stato sufficiente per non soffrire. Per mio padre ha funzionato: mi ha battuto anche in questo.
Se ora chiudo gli occhi, vedo la faccia di Alessio, ladro, spacciatore, piccolo pervertito, amico fraterno di Giovanni, mio figlio. Dalle elementari, sempre insieme. Se faccio attenzione, lo sento parlare con il suo accento strascicato, pieno d’aria dopo ogni c, ogni t. Immagino di incontrarlo al bar, di sbattergli la testa contro il marmo del bancone che si tinge di rosso, di nuovo, ancora, finché non si accascia in un lago di sangue. Se non mi tenessero – ma chi mi tiene, qui, nella mia testa? – lo colpirei ancora, vorrei non restasse nulla di lui. Nulla di intero.
Sento girare la chiave. Apro gli occhi: oggi Giovanni torna a casa. Cosa dovrei dirgli? “Vieni, è tutto perdonato”? Alzo un po’ il volume: è con Alessio che sorride e lo riempie di attenzioni, gli porta il borsone, lo incoraggia. Mia moglie si siede accanto a me, ha gli occhi rossi e non dice nulla. Vorrei tanto mi tirasse uno schiaffo. Vorrei respirare.
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