di Luca Giommoni
Mia moglie mi lasciò poco prima che il mondo smettesse di provare affetto. Mi disse che ormai ero solo un estraneo e, tre settimane dopo, la pioggia cadeva non per bagnare esistenze ma per affogarle, il sole sempre più vicino sembrava un bambino che si diverte a bruciar formiche con la lente d’ingrandimento, la luna se ne fregava delle maree così come i nonni se ne sbattevano altamente dei nipotini, la polizia arrestava studenti e la scienza arrestava le sue ricerche, gli amici pensavano solo a loro stessi e la politica non pensava più a nessuno.
Secondo i calcoli senza amore di un gruppo di tecnici, cinquantadue settimane era il tempo che sarebbe rimasto al mondo in queste condizioni.
Il Dipartimento non ci mise molto a intervenire. Fra tutti gli impiegati, scelse me. Per la mia professionalità, la mia concentrazione e per tutti gli anni di onorato servizio. Mi prese e, visti i tempi, mi abbassò lo stipendio, mi levò gli occhiali da vista, mi rinchiuse in un’intercapedine e mi spedì indietro nel tempo.
Sempre il gruppo di tecnici aveva individuato tre microepisodi disseminati nel passato, il cui avverarsi, o meno, avrebbe influenzato il corso degli eventi. Uno scrittore che scriveva solo per vanità non avrebbe dovuto pubblicare un libro, una bambina avrebbe dovuto perdere le sue bolle di sapone, un operaio non sarebbe dovuto morire sul luogo di lavoro, e così il mondo avrebbe continuato a essere affettuoso.
Il mio compito era quello di favorire o impedire il verificarsi di ogni singolo episodio, tenendo informato il Dipartimento attraverso l’invio di dispacci tramite posta interna che tanto interna poi non era, considerato che se uno avesse voluto avrebbe potuto inviare un disco dei Beatles a Hitler o un cucciolo di velociraptor ad Alberto Angela.
Arrivai in Sicilia un anno dopo Garibaldi. Avevo una gran voglia di fumare e mi mancava moltissimo mia moglie. Trovai un rivenditore di tabacco che ci mise un po’ prima di servirmi. Sembrava nervoso e imprecava davanti una bacheca che dava l’impressione di essere stata costruita per contenere qualcosa di importante anche se era vuota. Tra una sigaretta artigianale e un sigaro Florio, preferii il sigaro Florio mentre il rivenditore di tabacco non si preoccupava di mostrare tutto il suo disprezzo verso la Società di Navigazione a Vapore del Tirreno, colpevole di non avergli ancora consegnato i primi francobolli dell’Italia unita a causa di ritardi nella navigazione. A mia moglie piacevano i francobolli. Diceva che andavano dappertutto rimanendo sempre al loro posto. Mi distrassi ascoltando ancora un po’ le lamentele del
rivenditore. Quando gli chiesi perché desiderava così tanto quei francobolli lui mi rispose che era rincuorante sapere che il re di oggi sarebbe diventato il francobollo di domani.
Baresi era già scoppiato in lacrime a Pasadena quando arrivai sul luogo del mio secondo intervento. Un acquazzone rendeva difficile scorgere anche il Centro Georges Pompidou. Mi rifugiai sotto dei portici. Mi mancava moltissimo mia moglie ma questa volta non avevo voglia di fumare. Ce l’aveva invece un signore baffuto con pochi capelli grigi legati in un codino dall’aria bonaria, che mi chiese se avevo da accendere. Mi distrassi nel seguire le forme di fumo che rilasciava dalla bocca. Sembravano uscire come le aveva pensate. Poi disse, come se non riuscisse più a tenere quelle parole solo per sé, che l’unica opera pubblica che aveva fatto era la Malpensa, che certe cose le aveva sbagliate perché pensava di avere un committente privato, perché pensava di disegnare per la gente che aspettava di partire o che arrivava, invece si era accorto che l’aeroporto contemporaneo praticamente era uno shopping center, che la parte del passeggero era la meno importante, che non interessava a nessuno cosa diventava il passeggero e quali erano i suoi problemi. Quando gli chiesi cosa ci facesse a Parigi, lui indicò il Centro Pompidou e rispose che lì dentro, in quello stesso momento, c’era una sua mostra. Quando mi presentai, lui mi allungò la mano e disse: «Piacere, Ettore Sottsass». A mia moglie piaceva Sottsass. Diceva che lo avrebbe voluto come il nonno che non aveva mai avuto.
Kim Jong-Un veniva esploso dal grembo materno e io arrivavo a Firenze. Pensavo tantissimo a mia moglie e mia moglie, quando i pensieri non la lasciavano stare, si nascondeva in uno shampoo, come suggeriva Gaber, e io feci lo stesso. Trovai il primo barbiere utile e aspettai il mio turno. Il signore davanti a me aveva un aspetto familiare. Si stava facendo accorciare i baffi e il barbiere al momento dei saluti lo chiamò “maestro” e l’uomo, che riconobbi solo dopo che fu uscito dalla bottega, era Tarkovskij. A mia moglie piaceva Tarkovskij ma non le piacevano i baffi. Più volte avevo accarezzato l’idea di farmeli crescere e più volte mia moglie aveva minacciato di lasciarmi se lo avessi fatto, poi mi aveva lasciato lo stesso, anche senza baffi. Mia moglie odiava i baffi. Gli unici baffi che tollerava erano quelli di Tarkovskij.
«Se tu fossi Tarkovskij allora potresti avere dei baffi» mi diceva sempre.
Mi mancava moltissimo mia moglie.
Mi distrassi e uno scrittore che scriveva solo per vanità pubblicò un libro, una bambina non perse le sue bolle di sapone e un operaio morì sul luogo di lavoro. La cioccolata non consolava più né gli amanti si amavano e, a ogni compleanno, si
spegnevano sogni e non candeline, ma la trentaduesima settimana dopo che il mondo aveva smesso di essere affettuoso il Dipartimento registrò quello che sembrava essere il primo segnale di cambiamento, il primo gesto d’affetto dopo tanto tempo. Una donna ricevette a casa, da parte di un estraneo, un francobollo dell’Unità d’Italia, Ettore Sottsass e i baffi di Tarkovskij.
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