di Lavinia Ferrone
“Sai babbo l’altro giorno con Giovanni siamo andati a vedere un film di Kiarostami, il regista iraniano. Il film si intitola 24 Frames, è l’ultimo che ha fatto. In sostanza con questo film vuole andare ad indagare che cosa succede l’attimo prima e l’attimo subito dopo che si è scattata una fotografia”. La spaccio come se fosse una mia analisi del film, ma è quello che c’è scritto sul libricino del festival. Continuo “Sì beh lui, oltre che regista è anche fotografo infatti questo film è come se” sto per dire “è come se fosse il dialogo tra la sua opera di fotografo e quella di regista” esattamente come è scritto nel libello, è una vita che cerco di fare bella figura con mio padre.
“È come se, come se fosse un’opera di film-making” vedo mio padre cambiare fisionomia ed assumere quella dell’incomprensione. Insisto “Non so se si può dire, però davvero non saprei in quale altro modo spiegartelo”. Mio babbo si pulisce la bocca con il tovagliolo, io:
“Ci sono questi fermi immagine”. Mi interrompe:
“24 suppongo”
“Esatto, 24 fermi immagine”, lui:
“24 frames?” ride.
“Esatto ventiquattro, insomma, ventiquattro fermi immagine che però non sono proprio fermi nel senso ci sono come delle fotografie di paesaggi attorno alle quali ruotano delle cose degli avvenimenti. Cioè, sono tutte immagini di natura ad esempio ci sono questi paesaggi innevati dove però la neve che cade è finta è grafica capito tipo computer grafica. Tipo i lupi si vede che sono fatti col green screen e poi niente non c’è quasi mai musica non ci sono dialoghi”
“Non dire ‘niente’. Facciamo un caffè? Vai di là, chiedi alla mamma se ci fa un caffè”.
Vado in cucina e preparo il caffè mentre mia madre lava i piatti. Torno in salotto e mio babbo è ancora a sedere al tavolo che fissa il nulla. Quando si accorge che sono tornata mi guarda dal basso verso l’alto “Insomma mi dicevi di questo film, non ho mica capito”.
Apro la finestra anche se è novembre e fa freddo, entra la luce diretta del primo pomeriggio. Continuo a parlare con mio padre guardando fuori “Insomma babbo che ti dicevo, ecco no, in effetti il film era un po’ noioso ma mi ha fatto pensare a delle cose”. Gli dico che quelle immagini di quegli animali, fermi in mezzo a distese di nulla, esseri, in quanto tali, ricoperti da una protezione di gommoso silenzio, mi avevano fatto solo pensare a quanto sia grande il mondo, larga la vita, e mi viene in mente l’aggettivo ‘larga’ ma solo perché mentre lo dico apro le braccia.
Un frame non basta per raccontare tutto. Ogni frame è il figlio di quello prima insieme a quello dopo, quello prima con quello dopo.
Credo di avere aperto quella stessa finestra un milione di volte, quante volte ho pranzato lì non lo so, quante ore devo averci passato, che parlo a mio padre con i gomiti poggiati sul davanzale e lui che mi interrompe nominando i monumenti che si vedono, contandoli.
“Sai cosa è successo poi, che la gente spazientita è andata via e, vedi, anche questo alla fine mi ha fatto pensare a tutti noi. Che viviamo, ognuno incastrato nel proprio angolo su questa terra maledetta ma, alla fine, non si trova pace, babbo. Si vivono le giornate e si aspetta l’ora, come spicchi di una meridiana, quando passa un raggio di sole che ti illumina un istante. Si muove nevroticamente la gamba guardando l’orologio, masticando gomme da masticare come se gli attimi fossero da mangiare, degli avanzi da finire. Non si riesce, via, non si riesce neanche a stare due ore fermi a osservare qualcosa che sembra che non ci dica niente solo perché è in silenzio, sembra niente perché non si vede mai, perché neanche si riesce a concepire. L’attimo prima e l’attimo dopo che scatti una fotografia… sai babbo mi viene da pensare che forse neanche esistono, coincidono e basta, ma che vuol dire poi…”
“Ma come è bella la magnolia laggiù”.
E se avessi potuto, giuro su dio. Quello era il mio frame. E cosa sia successo prima, cosa succederà dopo, io non lo so. Cosa possa spingere a catturare un frame piuttosto che un altro, è dato saperlo solo al dio, qualcuno avrebbe detto. Io dico che la spiegazione può essere la stessa del perché si fanno le fotografie alle scie degli aerei.
Rispondi