di AA.VV.
Quindi per farla breve quest’anno e forse mai più niente classifica.
Le ragioni di questa ennesima fuga sono da ricercare in due riunioni (sempre di lunedì, da Carmelo, Firenze, se passate vi facciamo ciao con la mano) andate semideserte o prive del benché minimo accordo, e in fondo meglio così, ci siamo detti, che ognuno dica il suo titolo e i nostri lettori se ne faranno una ragione.
Sì, ma i personalismi?
Macché.
Si ma chi c’è l’ha più lungo?
Ma no.
(Signore e signori, è stato il 2017 un anno importante per la bocciofila. Difficile come sempre e più di sempre, ma bello e qualche soddisfazione ce la siamo tolta. Il nostro librino degli haiku sta andando esaurito, ma vi rendete conto? Grazie a chi ci sta un po’ intorno, alle nostre madri metaforiche che ci mettono i cerotti sulle ginocchia quando torniamo a casa piangendo, che abbiano il volto di librai barbuti, di fidanzati poliglotti o di maschere cinematografiche, adesso, poco importa. Buon anno)
Ecco qua.
Salvatore
Baby Driver. Il genio della fuga (Edgar Wright, 2017)
Non so se questo film sia entrato in qualche classifica di fine anno, o se ci si imbarazzi a metterlo, ma poco importa: ci deve stare. Perché? Be’, per la musica (da gustare qui), metronomo e co-protagonista di ogni scena. Per le coreografie in auto, dalle quali molti film di genere avranno da imparare. Per quel sapiente mix di Tarantino e Ritchie che il regista è riuscito a condensare pur senza snaturare la pellicola. Perché l’hanno definito un Drive scanzonato e leggero, ma scanzonata e leggera è solo tale definizione. Baby Driver è il più bel film d’azione del 2017: due ore di puro intrattenimento. Ed è pure l’ultimo film in cui vediamo Kevin Spacey prima che le molestie ce lo portassero via.
Simone
Sieranevada (Cristi Puiu, 2016, uscita italiana giugno 2017)
Di questo film non ricordo quasi niente, se non una precisa sensazione: parlo di quando la sera esci per andare al cinema da solo, ti muovi attraverso un quartiere dove sei appena andato a stare. E per qualche misterioso motivo il film parla a te, ma non c’è nessun altro sguardo con cui confrontare questa visione e dopo poco non sei nemmeno sicuro che sia successo.
Sieranevada anticipa, io credo, una direzione che hanno tutti i film nelle prime posizioni delle classifiche di fine anno, di quest’anno: film senza un centro, narrazione di narrazioni, descrizione e messa in scena della complessità. Ma il film di Puiu lo fa meglio degli altri.
Francesco
Twin Peaks (David Lynch, 2017)
Il miglior film del 2017 è una serie tv?
Risposta breve: sì.
Risposta lunga: il cinema è un’arte, la tv è un medium che, tra le altre cose, trasmette opere cinematografiche. Nel corso degli anni ‘80, una serie di opere prodotte per la tv (Berlin Alexanderplatz, Fanny e Alexander, Heimat, Il decalogo) forzarono il canone cinematografico e ne divennero parte una volta per tutte. Twin Peaks è un’esperienza cinematografica radicale destinata a trovare posto, nella storia della settima arte, a fianco dei capolavori citati sopra.
«This is the water. And this is the well. Drink full and descend»
Leonardo
La La Land (Damien Chazelle, 2016, uscita italiana 26 gennaio 2017)
«Ma ci ho davvero capito qualcosa?» è ciò che penso immediatamente dopo aver visto gli sguardi delle persone quando dico che La La Land è il mio film preferito tra le uscite di quest’anno. Ma non lo penso tanto della pellicola – perché in realtà questa mi pare di averla capita – quanto invece della vita, o meglio della realtà. Allora ci rifletto meglio: nel film anche i due protagonisti non fanno altro che porsi la stessa domanda, e si amano finché continuano a porsela. Poi, però, sembra andare tutto a rotoli dal momento in cui smettono di domandarselo, se hanno davvero capito qualcosa della realtà, e rispondono con le varie certezze acquisite dal mondo. E così capisco che continuerò a dire che La La Land è il mio film preferito del 2017 per continuare a pormi quella stessa domanda.
Ferruccio
Loveless (Andrey Zvyagintsev, Russia, 2017 durata 128 min. Consigliato a un pubblico maggiore di 13 anni)
Sarà che l’ho visto ieri, ma questi film gelidi e spietati, senza futuro, senza sorrisi, tutti virati al color del ghiaccio che nascondono temi segreti nell’ovvietà di una società disgregata dalla mancanza di cura, dalla superficialità, dall’uso eccessivo di social media, selfie, cellulari, egoismo, shopppppping, figli scomparsi, figli scomparsi, figli scomparsi, a me questi film fanno letteralmente impazzire, perché una volta tanto, tra un pianto a dirotto e l’altro, ci mostrano, senza farci perdere troppo tempo in inutili cazzate retoriche, a quale punto di imbarbarimento siamo giunti. Menzione speciale per The square e Jim and Andy, che non ho scelto anche se mi hanno devastato altrettanto. L’arte, quella vera, è un’apocalisse anche se fa ridere, oppure è una perdita di tempo.
Francesca
Blade Runner 2049 (Denis Villeneuve, 2017)
Vorrei abitare un mondo feroce, in cui il concetto di umanità è caduto in disuso. Vorrei, in questo luogo di riverberi, spot pubblicitari e tecnologie subito obsolete, aggirarmi senza scopo, eseguendo per conto terzi ordini che non sono in grado di comprendere. Vorrei convincermi di essere l’eletta per poi capire che i ricordi sono solo le scorie di condizionamenti esterni. Vorrei abitare un mondo polveroso, indifferente, drammatico, già morto. Mi accorgo, poi, che lo abito già.
Giovanni
A ghost story (David Lowery, 2017)
È stato un anno un po’ così, in cui le due più grandi aspettative che avevo sono state grandemente deludenti (Dunkirk e Blade runner 2049) e in cui, alla fine, sono andato al cinema molto poco. C’è un film però, girato in Texas da un ragazzo originario del Wisconsin, il primogenito di nove figli, che mi è piaciuto un sacco. Responsabile del rilascio di dopamina sopra la media è stata senza dubbio l’attrice protagonista, Rooney Mara, di cui nutro un’insana adorazione dai tempi di Millennium. Ma la fantasia, la profondità e la silenziosa leggerezza del film ne fanno comunque un piccolo capolavoro. Nella scena in cui Casey Affleck fa ascoltare la sua canzone alla fidanzata (questa) capiamo cos’è l’amore, dal momento che il nostro gradimento passa da lei e dai suoi occhi, ed è incondizionato. Del resto, lo diceva il saggio, ogni storia d’amore è una storia di fantasmi.
Pierluca
L’altro volto della speranza (Aki Kaurismäki, 2017)
Perché due atti sono meglio di tre.
Perché non sono uno spettatore curioso e la ripetizione dell’uguale mi conforta.
Perché il cinema Fiamma a Roma era una casa e l’ultimo spettacolo non poteva essere altrimenti.
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