di Leonardo Biancanelli
Qualche giorno fa, mentre dondolavo lungo una passerella sul porto di Cherbourg, con le mani al riparo dal freddo, lo sciabordio dell’acqua fetida di porto contro la pietra dei piloni della passerella mi aiutava a fantasticare, così mi ritrovai a pensare: se l’uomo smette di immedesimarsi – in qualsiasi cosa: nel suo prossimo, o nel pesce che si scuote come un ossesso sul fondo della barca, che ricerca un guizzo via dall’aria che lo ammazza per tornare nella vita ovattata dall’acqua – finisce che ci si spacca il cranio con delle mazze e ci si taglia le gole, e le grida di dolore, il respiro affannato della sofferenza e della depressione, il crollo emotivo, persino la pazzia, finiranno per non avere risposta. Potrebbe accadere, allora, che l’uomo perda il proprio potere, se così si può anche solo pensare di chiamarlo; che ognuno di noi inizi e finisca con se stesso, e che per se stesso strepiti e commetta nefandezze: perché molto, se non tutto, sta nell’immedesimazione.
Mi pare che il mondo sia pieno di violenza. Al mio assassino allora implorerei di non porre fine alle mie gioie e alla possibilità di trovare ancora lo stupore, ma lui farfuglierebbe qualcosa di malvagio, poi mi sparerebbe a bruciapelo e mi sottrarrebbe il cappotto. Se non avessi il cappotto, le scarpe. Se non avessi le scarpe, mi frugherebbe la felicità – forse più la spensieratezza – per averla per sé.
La violenza in realtà sarebbe limpida come lo è qualsiasi cosa in natura se soltanto non avessimo la capacità di immedesimarci, di essere violenti e goderne, di essere consapevoli della prevaricazione, e di comprendere il potere; così invece diventa torbida, diventa un putiferio, e gli uomini che sono forzati alla violenza ne soffrono.
Spesso mi domando se esiste colui che torturerebbe l’uomo che incarna se stesso.
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