Ispirato a una storia vera. Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale
Dante è un cantautore sulla sessantina. Sin da giovane si è accompagnato a una chitarra con cui ha girato il mondo, proponendo un repertorio musicale che si rifà ai grandi classici della tradizione italiana, francese e americana. Guccini, Brassens, Cash. Al culmine della sua parabola artistica ha aperto un Club in pieno centro che è stato l’ombelico nazionale della canzone d’autore. Da lì sono passati tutti: Vecchioni, De André, Lolli. Il suo approccio alla performance live si è però cristallizzato in quel glorioso e ormai invecchiato periodo, ignorando l’eredità a cui il gusto del pubblico ora si rivolge.
Oggi Dante ha una parlata modulata su voce roca, tutt’altro che melodica, e un pensiero disarticolato. Ondeggia come una barca tra i ricordi personali e la praticità delle mansioni da svolgere. Ora ride e scherza. Ora non te la manda a dire. Si veste sempre con un jeans slavato e una maglietta sformata dal tempo. C’è da dire che l’ho visto solo d’estate, ma mi piace pensare che la sua pelle cotta dal sole si faccia bastare quegli indumenti anche quando arriverà la neve, e lui ricorderà le sue origini costiere senza troppa nostalgia, col solo dispiacere di non ritrovare certe usanze, certo calore burbero, certe rudi buone maniere anche un po’ sopra il livello del mare.
Dante ha da poco riaperto il suo storico Club, per esibirsi ancora. Non vuole smettere. Non è più in centro però, ma in un piccolo paesino in collina, a due passi dalla città, dove la passeggiata ricca di dehors forma una lingua contigua di tavolini e sedie da cui si leva un indistinto vociare multilingue. Il locale si trova al limitare di questo paesaggio turistico in miniatura. Io l’ho conosciuto lì, una sera d’estate, tramite un amico comune. Mi dice che ha bisogno di qualcuno che disseti i clienti mentre lui sul palco riarrangia L’avvelenata.
Quel posto è un’accozzaglia di sentimenti e visioni. Una taverna di “gucciniana” memoria che fa a pugni con un saloon gestito da indiani d’America. Il senso degli spazi e il gusto per gli arredi gioca a torello con l’idea di una proposta culturale differente e i limiti pratici di una gestione solitaria, svogliata e passeggera. Tempo e spazio si fondono e collassano in passioni, suoni e gusti personali definiti e distanti. Un luogo confuso, fermo al qui e ora, un eterno presente che ripropone un glorioso passato proiettato verso un decadente futuro. Un luogo per questo dotato di ormai mite e prudente stravaganza, anche nell’offerta di consumo, dove tutto costa cinque euro, e quel tutto sono birra, vino e amari: cinque euro.
Si può quasi dire che quel locale è la proiezione dello spirito di Dante, di ciò che oggi è diventato. Come se tutti i luoghi in cui è stato e dove ha suonato si fossero sintetizzati dentro quelle mura, trattenendo l’essenziale per definirlo e lasciando fluire via ogni orpello utile solo a sporcare l’intimo spazio che lega l’artista al pubblico. Vero senso ultimo della presenza del posto.
Non so se considerare questa cosa avanguardia o parossismo. Ci penso ogni volta che, entrando, due foto di Johnny Cash mi guardano. In una The man in black è colto a mezzo busto: chitarra a tracolla, ghigno beffardo e dito medio rivolto al mondo e alla vita. Nell’altra, un ritratto caratterizzato da contrasti di ombre e luce, mette in risalto il dolore e una sorta di sconfitta morale impressa nello sguardo. Le due immagini sono attaccate su un pezzo di cartone appeso sopra la cassa e con su scritto CASH.
Personalmente, dietro quella tragicomica visione, non posso che vedere un’ostinata resistenza e passione che fa sì che la presenza di Dante in quel paese in collina altro non sia che una poetica, silenziosa e trascurata ostilità verso l’estenuante rincorsa all’originalità, cui tutti oggi ci sentiamo in dovere di partecipare, senza per questo vincere.
Rispondi