di Lavinia Ferrone
La sua corsa affannata era volta a raggiungere gli altri bambini che vedeva già in lontananza ciondolarsi, chi appeso a testa in giù, chi con le gambe stese nel vuoto come dardi sparati verso l’alto, a gridare ‘Più forte! Più forte!’. Di alcuni si vedeva solo la scia spalmata come vernice sui muri, mentre il girello a tutta velocità era pilotato da un comandante col caschetto sudato che ne aveva oramai perso il controllo ritrovandosi da solo a placare gli animi dell’equipaggio di bambine che, aggrappate al perno centrale, imploravano pietà ‘Basta! Fermalo! Sto per vomitare!’. Con le mani e i ginocchi sepolti, a gruppetti di tre, accumulavano granelli di sabbia e terra, esistiti già secoli e secoli orsono, della loro perpetua e inscindibile sostanza l’esser parte, quel pomeriggio come centinaia ancora, del cumulo, della duna, di quell’ideale, ipotalamico castello di sabbia, non era che una frazione di secondo nella storia dell’universo. Ma dall’osservatore. Quei pomeriggi, ognuno di quei pomeriggi al parco dopo scuola, erano un anno intero che volava via, vedendo la sua fine al segnale dell’arrossarsi del cielo.
C’era ancora tempo.
Arrivata al punto strategico tutti i giochi erano impegnati. Lo scivolo era intasato da un serpente di teste irrequiete che si litigavano il posto, che non appena finita la discesa, col brivido della caduta addosso, avidamente si rimettevano in fila ancora e ancora, vogliosi di cascare come in un tuffo blu. Polpacci, braccia, teste e lingue lunghe stavano appese in cima alla rete di corda rossa per arrampicarsi e sullo sfondo le ali frenetiche di confezioni di gelato azzurre e bianche aperte male, con le mamme che parlavano gesticolando, tirandosi su la borsa sulla spalla, sistemandosi tante volte i capelli dietro le orecchie, con la testa che si piegava verso sinistra e le palpebre abbassate e il gelato già iniziato in mano che nell’indifferenza generale perdeva pezzi, cominciava a sciogliersi. Col tempo che pareva assopirsi, si scioglieva. E dall’osservatore, quella era tutta la vita.
Se lo dovessi dire adesso, gli argomenti delle madri intorno, come serafini ardenti d’amore, non erano roba seria.
Eccolo lì l’unico gioco rimasto libero, il dondolo. Non ci si poteva giocare da soli, non ci si poteva giocare in tanti, si trattava di scegliersi e di scegliere senza potersi più confondere nella coscienza di tutti, mischiandosi a far parte di un unico modo. Si trattava di trovare un corrispettivo, il che implicava abbandonare tutto per l’autoconsapevolezza, affrontare di essere faccia a faccia con l’altro lato di se stessi senza che nessuno dei due avesse voglia di dire neanche una parola. E nel vibrare convettivo di schiamazzi emergeva a pelo d’acqua quella faccia olivastra e immobile che la fissava. Lei stringeva il pollice tra i denti mentre nel pugno della mano sinistra si stropicciava il grembiule facendo a pezzi la chiara certezza che avrebbe voluto giocare per tutto quello che restava del pomeriggio. Lui continuava a guardarla con le labbra chiuse che tremavano un poco per l’indecisione. Lei non voleva contraccambiare lo sguardo che però riaffiorava ogni istante come un sasso nella sabbia della battigia, senza che lei potesse evitarlo ritornava sempre, respirava. Guardando un po’ in basso, voltandosi un po’ indietro, entrambi andavano verso il dondolo che era al lato di ogni cosa.
E nel boato di tutto il pomeriggio al parco, davanti al binario del treno e nell’odore di acerbo, delle gemme carnose prima che siano frutti, in tutta la ruvidezza dei primordi, l’ignoto buio del prodromo, quell’asintotica curva che tende al compiuto ma che ancora non è, che non è natura bensì tutto quello che è prima nell’atto della creazione, tutto, si riassumeva in uno spasmo. Fronte contro fronte, cercando di guardarsi il meno possibile. E dal punto di vista dell’osservatore. Per l’osservatore quello che era chiaro era che se uno dei due avesse lasciato il gioco, quello stesso sarebbe finito anche per l’altro. Che nessuno dei due volesse davvero eppure per entrambi prima ancora di saperlo, c’era il farlo, c’era l’essere lì ignorando lo scorrere del tempo, come se quest’ultimo non fosse che un segmento da un punto A ad un punto B. Se all’inizio del gioco ad entrambi era chiaro che sarebbe stato inutile, che fossero state le circostanze ad averli portati lì e che nessuno dei due volesse dimostrare all’altro che nonostante tutto avesse voglia di giocare, adesso, mentre le voci di tutti si allungavano perché via via che uno saliva, l’altro scendeva, il tempo scadeva. Adesso.
Nessuno degli altri bambini aveva pensato al dondolo, nessuno ci si era avvicinato, senza che nessuna delle code degl’occhi li seguisse, ci facesse caso, loro avevano preso possesso insieme di un intero gioco e, senza il loro assenso, nessun altro avrebbe potuto giocarci. Qualcuno degli altri bambini che fino a quel momento era stato completamente concentrato sul proprio, di gioco, aveva visto in lontananza quelle due sagomine salire e scendere in maniera alternata, ma una volta posatovi lo sguardo per un attimo, riprendeva subito ad arrampicarsi sull’albero della nave per ammainare le vele, a tirar su il secchio d’acqua con la carrucola, a nascondersi dal lupo, a spengere il vulcano.
Fino a che non arrivava il freddo dalle mani al naso e la terra era di nuovo bagnata dall’ombra umida della sera. Pochi compagni bizzavano per restare, le altalene non cigolavano più.
E proprio quando lei era in alto, lui si sentiva chiamare. Mentre lei distratta più in alto di tutta la città guardava quello che senza saperlo era il riflesso del sole sui lucernai contro le sagome dei gelsomini e delle palme, senza più il peso della terra sotto ai piedi si sentiva ergere in alto al capo di tutto che si squagliava infine tra scintille di bronzo e trecce di scie d’aerei. Capiva. Stava capendo, che niente di tutto questo sarebbe durato per sempre.
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