Gilles Deleuze era un filosofo nato nel 1925 e morto nel 1995, che se qualcuno mi spiega la differenza tra Costruttivismo, Post-strutturalismo e Decostruzionismo (le tre correnti filosofiche a cui Deleuze in qualche modo appartteneva), senza chiamare in causa nozioni gnoseologiche o metodologiche ai più incomprensibili, allora costui è bravo. Noi ci limiteremo a sostenere che un giorno, forse per scherzo, Foucault affermò che ci sarebbe stata un’epoca (la nostra attuale) che sarebbe stata rinominata deleuziana e non ci sono dubbi che, con le giuste attenzioni, questa profezia sia un dato di fatto.
Deleuze è stato però anche un grandissimo critico e, per quel che ci riguarda, un critico cinematografico di una certa importanza. Quando Gilles scrisse il suo famoso saggio su Marcel Proust, sostenne che Proust doveva essere letto quando si era ancora giovani, in quanto la Ricerca del tempo perduto rappresentava un insegnamento per la vita futura e non una ricommemorazione lagnosa del passato. Noi ci sentiamo di dire che i due libri di Deleuze sul cinema abbiano lo stesso valore per ogni futuro spettatore che vorrà presentarsi come tale (e ancor di più per ogni futuro regista). E questo anche se non si è d’accordo con le posizioni di Deleuze.
Nell‘ABCedario, alla domanda del perché si sia interessato al Cinema, Deleuze risponde che lui sinceramente si interessa ad ogni fenomeno che palesi un’idea originale o nuova (citazione non letterale). Questa sua affermazione ci fa capire che Deleuze intendeva i registi (o meglio: non tutti i registi, ma quelli che hanno inventato di volta in volta il cinema), come dei veri e propri pensatori. La loro filosofia si estrinsecherebbe non tanto nel contenuto (nel plot, nella storia, nelle vicende narrate), quanto nella combinazione tra montaggio e inquadratura. Esisterebbero quattro grandi scuole di pensiero all’interno del cinema che hanno prodotto quattro differenti tendenze. Ogni film possiede in sé tutte e quattro queste componenti, ma ogni scuola si è concentrata particolarmente solo su una tendenza di volta in volta: 1) la tendenza organica (per intenderci Griffith e tutti i suoi discepoli americani). In questa scuola si intende il montaggio come un essere organico unitario colto nella sua logica tendenzialmente binaria (montaggio parallelo e alternato). 2) Poi ci sarebbe la tendenza dialettica tipica dei sovietici, i quali vogliono far emergere, dallo scontro di due serie di immagini (tesi e antitesi), un nuovo senso tutto a carico dello spettatore (sintesi). 3) C’è anche la tendenza della maggior quantità di movimento tipica dell’impressionismo francese (il film è preso da un ritmo che travolge tutto e trasforma la pellicola in una sorta di balletto macchinico sempre più accelerato). Infine 4) la tendenza intensiva dell’espressionismo tedesco, dove ogni inquadratura esprime un grado di intensità del conflitto tra luce e tenebre, metafora della lotta interiore tra caduta negli inferi e ascesa in una gioia spirituale (che non è né psicologica né religiosa, ma spesso solo esistenziale).
Queste quattro scuole non sarebbero altro che 4 tipi differenti di filosofie, che in un film, in qualsiasi film, sono presenti come tendenze. Cosa voglia dire in particolare ognuna di queste scuole in quanto sistema complesso (ma immanente) di interpretazione del mondo, ve lo lascio scoprire da soli (o con la vostra deduzione o andando in libreria a comprarvi Deleuze), quello che però mi preme sottolineare è il motivo per cui un filosofo del genere meriti di essere ricordato nel contesto cinematografico a vent’anni dalla morte: Deleuze sarà senza dubbio una lettura faticosa, ma quella fatica che farete vi permetterà di essere spettatori (o ancor di più registi) migliori. Che si sia d’accordo con la filosofia di Deleuze oppure no è irrilevante.
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