Scrivere dell’esordio cinematografico di Manfredi Lucibello mi è impossibile, per questo ne scrivo. Perché scrivere è in fondo questo: fare ciò che non si può, ciò che non ci riesce, ciò che non è in nostro possesso di fare.
Mi è impossibile per tanti motivi, ma primo tra tutti perché Manfredi lo conosco bene, anzi a esser sinceri dovrei dire quasi per nulla, o meglio ancora che in un’altra stagione (o forse notte) della nostra vita ci siamo passati accanto, frequentati, magari perfino voluti bene.
Non posso scriverne perché se comincia il film e uno dei due personaggi (Bobulova) dichiara di essere un avvocato e l’altra protagonista (Porcaroli) potrebbe essere tranquillamente sua figlia, io penserò immediatamente a Manfredi e a suo padre, quell’uomo magro e alto che avrò visto due o tre volte nella mia vita che di mestiere appunto era e forse è ancora, avvocato. Io penserò che quindi Manfredi stia mettendo in scena il suo rapporto con il padre, e questo è un pensiero che dovrei evitare, guardare il film con occhi neutri.
Tuttavia altre cose mi rendono impossibile scrivere stanotte di questo film. La piscina in cui galleggia il giubbotto della seconda ragazza mi farà pensare al quadro di David Hockney, che stava in camera della sorella di Manfredi, Angelica. A bigger splash. Se oggi mi chiedessero chi sia il mio pittore preferito io forse risponderei Hockney (ma nessuno chiede mai niente del genere) e questa non è una semplice coincidenza. Sono queste e altre immagini che mi rendono il film di Manfredi una specie di viaggio (notturno) nel passato, che mi fanno pensare che non posso scriverne una riga in più.
Ecco qua altri elementi che io rilevo e che mi fanno pensare a lui, ma forse dovrei dire a me, e certe cose che pure mi hanno sfiorato e ho sentito mie. Penso alla colonna sonora che accompagna il film, che mi ricorderà Lali Puna e un Sorrentino di quindici anni fa (2004) che per me e la mia generazione fu così importante (Le conseguenze dell’amore). E ora tutto è passato, penso con un’aria svogliata, come se questo presente fosse meno buono solo per il fatto che è ciò che c’è. Ma non è così.
Ancora. La ragazza nel sacco: mi compare davanti Twin Peaks, è lei, è Laura Palmer, sebbene questo per me sia un falso ricordo, io Twin Peaks l’ho visto da grande, in una di queste mie notti vicine all’attuale, e non in quelle là, lontane, ché avevo una famiglia (oggi dispersa chissà dove o forse disperso io da loro) che Twin Peaks in tv era meglio di no. Vedo anche nel giubbotto della protagonista che scappa il giubbotto di Drive, con lo scorpione dorato che è per giunta il segno zodiacale di Manfredi, e poi penso che la scena nell’erba alta è un’ottima scena, e in generale il film è molto buono, questo penso.
Fa paura vedere il film di una persona che si conosce o che si è conosciuta seppur chissà in che modo in un’altra notte delle nostre vite, perché sembra dirci qualcosa anche di noi. Di come siamo diventati, di come eravamo. E se il film non fosse stato buono io chissà che avrei detto, cosa avrei scritto questa notte, ma lo è. È un ottimo film, un film d’esordio scritto molto bene, pulito, che inizia con una regia forse meno sicura di sé e finisce per diventare molto sicura di sé. Ma sto farneticando cose a caso, non posso dire nulla io di questo film, è impossibile.
Chissà Manfredi, mi chiedo adesso, quando domani si guarderà indietro, tra qualche anno quando avrà girato altri ottimi film, chissà cosa penserà di questo suo esordio (seppur il concetto di esordio sia un paradosso, il grado zero non esiste), se domani rivedendolo lui ne rileverà le fragilità, le debolezze (solo lui può farlo, o il pubblico, ma non io) chissà se gli vorrà bene anche domani a questo film, chissà se non penserà che certe cose le avrebbe fatte diverse, chissà mi chiedo che cosa Manfredi penserà domani di questo film e se gli vorrà bene sempre. Io penso di sì, ma forse, qui davvero, sto parlando di altro.
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