Ha sempre avuto un suo strano modo di guardare le persone – gli altri, non i suoi – negli occhi. Alcune volte poteva arrivare al minuto.
Mia madre tirava fuori sempre la storia, con noi ragazzi, che il primo incontro tra lui e suo padre – il padre di mia madre – non andò bene proprio per via di quella cosa degli occhi.
Ma è scemo? Maria ti sei innamorata di un altro pazzo? ci diceva lei mimando il nonno, e rideva. Diceva che mio nonno aveva ragione, in fondo. Allora mio padre si arrabbiava perché non era sano che i ragazzi pensassero che il loro vecchio fosse un pazzo. Ricordo che alla fine sorse in me il dubbio se fosse meglio avere un padre pazzo, o un nonno pazzo; probabilmente meglio un padre pazzo, mi dicevo, il nonno sarebbe un pazzo troppo radicato nel tempo, sarebbe una pazzia ben più giustificata nella storia, un affare di famiglia ormai.
Quante stronzate.
Quando ero un ragazzino, eravamo seduti a tavola, io, lui e mia sorella Chiara – mia madre doveva ancora rientrare dal lavoro, lui indossava dei pantaloni del pigiama logori sulle ginocchia e ai piedi aveva le ciabatte di un hotel di lusso in cui aveva passato una notte o due prima che io e la sorella nascessimo, e Chiara cercava di allenarsi nel fare i nodi con uno spago –, e provai a fare quella cosa di guardargli gli occhi; lui se ne accorse, ma mi lasciò fare. Allora vidi qualcosa, un sottile velo, offuscare le linee curve della pupilla e dell’iride, impastare i suoi colori: quella che poi, da adulto, avrei riconosciuta una caligine profusa dalle scorie del passato negletto di ognuno di noi: più ampio e profondo il rimpianto per azioni ed errori commessi, più densa si spande quella foschia di detriti e polveri sottili inquinanti la mente, la vista, il desiderio e la tensione verso il futuro.
Avrebbe perso gli affetti, forse la cosa più cara, per chi sa quale sensazione di colpevolezza. Mia madre diceva che aveva sempre rifiutato di essere la conseguenza di ciò che era stato costretto a essere.
Qualche anno più tardi iniziò a ripetere ogni giorno i nomi dei suoi, perché quella caligine non offuscasse anche il loro ricordo. Mia moglie si chiama Maria, mio figlio Ettore, mia figlia Chiara, mia madre Anna, mio padre Antonio. Io mi chiamo Leo, diceva. Continuò per un anno, poi: mia moglie si chiama Maria, mio figlio Ettore, mia figlia Chiara. Io mi chiamo Leo.
Poi: mio figlio si chiama Ettore, mia figlia Chiara. Io mi chiamo Leo.
L’ultima volta che sono andato a trovarlo canticchiava una canzone che non sono riuscito a riconoscere, ma le parole erano inglesi.
Babbo sono io, gli dissi, ma lui rispose che si chiamava Leo.
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