Nel lato paterno della mia famiglia gira la storia di uno zio – non mi ricordo il nome – che era tornato a piedi dalla Russia.
Più della guerra stessa, di cui aveva visto molti fronti, difendendo lembi di terra che avevano gradatamente perso, ai suoi occhi, nome e identità, era stato il ritorno a piedi durato settimane, con scarpe abborracciate, a fare della persona un modo di dire, uno di quei nomi che si ripetono per intendere un concetto o una lezione e che non si possono dimenticare senza provare un vago senso di ingiustizia.
Questo zio era sopravvissuto alle bombe, alle battaglie e al fuoco amico dei ricordi grazie, rispettivamente, alla fortuna, a una generale abilità di guerriero (sulla quale tuttora, nel lato paterno della mia famiglia, si nicchia) e a una frase con cui sempre concludeva le lettere che mandava alla moglie: “più lunga l’attesa, più lieto il ritorno”.
Questa frase, queste otto parole pronunciate sottovoce come una preghiera – una leggera pressione della lingua contro gli incisivi sempre più lenti – erano diventate le mollette con le quali, mese dopo mese, appendeva la sua anima fradicia di orrore e disperazione.
Più lunga l’attesa, più lieto il ritorno, mia adorata, le scriveva. E mentre l’argento della foto che teneva in tasca perdeva definizione, nella mente ripensava al viso di lei per cercare di non dimenticarlo. Rievocava i dettagli, un neo sullo zigomo, una ruga sopra il naso, ricomponeva il suo corpo esile. Uno ad uno, passo dopo passo, rinfoltiva la testa dei capelli corvini e mossi. Passato il confine con la Polonia ridisegnò con squadra e goniometro l’angolo esatto delle spalle, le clavicole sporgenti, il cuneo delle scapole, e in Cecoslovacchia fu la volta dei fianchi e delle ginocchia. Si ricordò delle caviglie e dei piedi in Austria e così poté stare eretta e camminare. La vestì, passando in rassegna il suo armadio, sul Tarvisio, e pescando dal portagioie collane e orecchini la preparò all’incontro che era già a Gorizia.
Giunto infine a casa, ormai tutto ossa e cuore, bussò.
E lei gli aprì, interrompendo un’attesa di quattro anni col cigolio familiare della porta, un gesto scontato che dovette sembrargli un miracolo. In un attimo il soldato trasecolò nel vedere che il suo esercizio mnemonico teneva in mano una delle sue lettere, e a tradimento, come il morso di un serpente, lo colse il sospetto di non aver mai creduto davvero alla possibilità del ritorno, più di quanto non avesse segretamente goduto di quell’attesa.
E qua dovrebbe finire ogni buon racconto. Wakefield che torna a casa adescato dall’ombra di lei sul soffitto (Hawthorne gli fa varcare appena la soglia), Jack che invece è fermo sulla porta di casa di Maya con una goffa camicia elegante, laddove Will Hunting è ancora in strada che guida.
Ma lei, tutt’altro che un esercizio, trovandosi davanti quel volto intagliato dalla paura e dal suo contrario, quel volto ritorto e abbacinato dai flash dei missili di notte e dai sibili delle pallottole, prontamente mise mano alla sua famosa gentilezza e, brandendo la terza persona come si brandirebbe un martello, chiese allo zio del lato paterno della mia famiglia, di cui ancora, colpevolmente, non ricordo il nome, che cosa desiderasse.
Rispondi