di Olga Campofreda
Verso ora di cena Amanda chiamò i bambini in soggiorno. Aveva sistemato dei pezzi di carta e le penne sulla moquette. Mentre sentiva i passi di Kevin e Jen che scendevano le scale pensava che era proprio ora di andarsene, che le sarebbe costato di più far cambiare la moquette all’intero appartamento piuttosto che organizzare un trasloco. La macchia di sugo che Arthur aveva fatto quattro anni prima era ancora lì. Ogni volta lei ci finiva su con gli occhi, la costringeva a pensare a lui anche adesso che lui se n’era andato via, adesso che le carte del divorzio erano state avviate e tutto.
Kevin e Jen presero posto sul pavimento con i loro pigiami puliti. Lei gli disse di prendere una penna a testa e iniziare a pensare a un nuovo cognome. Una volta deciso, avrebbero messo il pezzo di carta chiuso nell’insalatiera, poi sarebbero passati all’estrazione, disse loro.
Kevin scriveva cercando di impedire alla sorella di leggere, teneva la mano davanti alla penna.
“Guarda che non ti copio” aveva detto lei. A tredici anni Jen amava tenersi fuori da certe provocazioni del fratello minore, salvo poi lasciarsi andare, alla fine.
“Mamma, Jen copia” disse Kevin.
“Lasciala stare, Kevin” aveva risposto la madre. “L’importante è scrivere i nomi che vi piacciono. Nessuno di noi vuole un brutto cognome sui documenti”.
“Io ho scritto Ironman” informò Kevin, guardando in direzione di sua sorella.
“Ironman non è un cognome, è il nome di un personaggio. Non ci vado in giro a farmi chiamare così” rispose Jen.
“Niente Ironman, Kevin” disse Amanda.
Il bambino sbuffò. Aveva solo quattro anni di differenza con la sorella maggiore, ma a guardarli così sembravano un abisso.
In televisione su un canale regionale davano una serie di match di wrestling con lottatori locali, gente che era stata nel circuito nazionale negli anni ottanta ed evidentemente aveva ancora bisogno di soldi. Da qualche parte Amanda aveva letto che i lottatori di wrestling non erano mai stati buoni a mettere da parte i soldi quando erano all’apice della carriera. Si erano bruciati tutto in cocaina, ville nel sud della California, yacht che lasciavano parcheggiati lungo la tratta tra San Diego e Los Angeles. Venti anni dopo avevano cinquant’anni, le facce deformate dagli infortuni e la pelle raggrinzita tenuta tesa con l’aiuto degli steroidi.
Amanda prese la penna e scrisse “Adam Leatherhead”. Poi cancellò il nome di battesimo, lo rilesse immaginandosi Mrs Leatherhead per un secondo, infine richiuse il biglietto e lo ripose nell’insalatiera insieme a quelli dei bambini.
Adam “the Bone” Leatheread lo aveva visto da ragazzina vincere i primi incontri quando suo padre la portava ai Car show, le fiere delle automobili che ogni due o tre mesi venivano organizzate nel deserto attraendo pubblico da tutta la West Coast. Si poteva campeggiare con il van, ma loro andavano per la giornata. Mentre i fratelli di Amanda restavano a guardare gli spettacoli dei SUV, eccitati dai motori giganteschi e dalla violenza degli impatti, lei cercava un posto tranquillo nel tendone degli incontri di wrestling e si nascondeva lì, fino a quando il padre non fosse andato a recuperarla. Preferiva in questo modo, era a suo agio nell’attesa, un tempo mite e sicuro in cui non si sentiva costretta a nessuna interazione. La gente era cattiva, le persone erano cattive.
A scuola tutti la prendevano in giro per il suo aspetto. La chiamavano faccia da coniglio. La spingevano in un angolo e le gettavano gli avanzi dell’insalata della mensa sui vestiti. “Mangia” le dicevano. Alla fine della scuola elementare la madre aveva deciso di farla studiare in casa, da allora era andata meglio. Le poche volte che usciva lo faceva con una sciarpa attorno al collo, a coprire le labbra, in quel modo nessuno l’aveva più infastidita. Amanda era nata con un labbro leporino, i dottori che le avevano fatto l’operazione le avevano chiuso il sorriso in una smorfia storta, perennemente schifata.
Ogni volta che suo padre tornava a casa con il volantino di un’altra fiera lei glielo sfilava subito dalle mani per controllare quali lottatori si sarebbero scontrati.
A quindici anni, nella sua prima cameretta da sola, Amanda aveva messo la foto di Adam Leatherhead sul comodino. L’uomo aveva lunghi capelli neri tirati indietro con la cera e raccolti in una densa coda di cavallo. Le spalle piene, forti, le braccia abbronzate e gonfie chiuse ai polsi da due bracciali di pelle scura, sulla spalla il tatuaggio di un cuore rosso sangue trafitto da una freccia e una pergamena con il nome della sua ex moglie, morta annegata durante una gita in barca. Il suo personaggio era quello dell’uomo leale e romantico che lottava difendendo l’onore delle donne. “Miss Leatherhead”, ripeteva Amanda, immaginando che un giorno sarebbe arrivato lui a proteggerla, sognando il momento in cui le avrebbe spostato la sciarpa dal viso e l’avrebbe trovata bella. Lei sarebbe sparita tra quei muscoli abbronzati e lucidi, dopo aver visto il lottatore allontanare con un solo gesto della mano chi la riempiva di insulti.
Arthur l’aveva colpita per quella incredibile somiglianza: era un uomo grosso, la pelle scura ottenuta con gli autoabbronzanti, i capelli tinti di nero che gli cadevano sul volto. Lo aveva notato per la prima volta al caffè accanto al palazzo dove lei lavorava come donna delle pulizie. Durante una pausa si era fermata a bere un caffè e aveva aperto un romanzo. Al bancone Arthur si lamentava del servizio, lo faceva ad alta voce, era un uomo che sapeva farsi valere. Si era rivolto a lei chiedendole se il suo caffè fosse arrivato e quando Amanda disse che no, non ancora, lui aveva alzato il volume della voce e aveva dato addosso al cameriere.
Un uomo che sapeva farsi valere.
Quando il caffè arrivò Amanda spostò di poco la sciarpa e prese a sorseggiare. Arthur aveva una gamba morta e zoppicando le si trascinò accanto.
«A volte mi dà dolore, ma prendo la mia medicina» le disse facendo un occhiolino e porgendole il bicchierino di whiskey che aveva tra le mani. Cercava di farla ridere. Lei restava in disparte, rideva con gli occhi, a labbra serrate il sorriso restava nella forma di un broncio, ma lui non poteva saperlo. Quell’espressione di sufficienza era il dettaglio da cui Arthur era maggiormente attratto in Amanda. Lo eccitava. Le chiese di uscire con l’obiettivo di sfondare quel muro di reticenza, una questione di principio.
Amanda restò incinta di Jen a diciannove anni: era il loro secondo appuntamento. Lei e Arthur si sposarono dopo un mese. Quando lui iniziò a tornare a casa ubriaco e a picchiarla davanti alla bambina lei si ripeteva che avrebbe potuto andarle peggio, che avrebbe potuto, per esempio, non avere affatto un marito, e Arthur era quello che si era potuta permettere. Il suo sorriso obliquo e la gamba morta di lui avevano stretto un patto prima ancora che loro se ne rendessero conto.
Quando arrivò Kevin e la bambina era abbastanza grande da riconoscere la violenza, Amanda le spiegava che il papà faceva solo finta. Che erano delle prove. Di lì a poco lui avrebbe preso parte a una di quelle fiere, al Car Show avrebbe riservato per loro i posti migliori, avrebbe spaccato una sedia sulla testa dell’avversario, ma per finta, per finta come lo faceva adesso, adesso che si allenava, che diceva di volersi sbarazzare di loro, uno a uno, stringergli le mani al collo fino a togliergli l’ultimo respiro. All’avversario avrebbe detto che gli aveva rovinato la vita, come adesso lo diceva a loro, ma non era niente vero, era per finta.
Amanda non aveva amiche a cui raccontare quello che succedeva in casa. A lei la gente continuava a non piacere, sentiva i loro sguardi addosso per la strada.
Con Arthur non era poi così male, la maggior parte dei giorni. Lui la vedeva per quello che era, la conosceva oltre le sue labbra.
“Arnold Schwarzenegger” disse Kevin, riponendo il biglietto nell’insalatiera.
“Mamma fallo smettere!” si rivoltò Jen.
Ma Amanda era distratta.
Alla televisione uno dei due wrestler era stato inquadrato con il volto completamente insanguinato. Dal bordo del ring l’avversario si preparava ad atterrarlo, incitando il pubblico a tifare. Una pozza di sangue si era depositata dove prima giaceva la testa del lottatore.
Amanda si toccò la fronte automaticamente, di riflesso, sotto l’attaccatura dei capelli. La sua cicatrice era ancora fresca, si risvegliava al tatto.
“È tutto finto” disse Jen, alzandosi per cambiare canale.
“Non significa niente” rispose la madre, poggiandole la mano sul braccio. “Ci vuole talento anche per fare finta”. Poi estrasse dall’insalatiera il bigliettino con il nuovo cognome.
Il giorno dopo avrebbero lasciato quella casa. Con un po’ di sforzi sarebbe riuscita a fare finta che la macchia su quella moquette non fosse mai esistita.
Olga Campofreda ha ottenuto un PhD in letteratura Italiana presso University College London, dove ora insegna. Tra le sue aree di ricerca principali ci sono i gender studies, le culture giovanili, cultura pop e controcultura. Ha pubblicato racconti sulle riviste Colla, Cadillac e Pastrengo. Ha scritto il reportage narrativo A San Francisco con Lawrence Ferlinghetti (Perrone 2019) e la monografia Dalla generazione all’individuo: giovinezza, identità, impegno nell’opera di Pier Vittorio Tondelli (Mimesis 2020).
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