La carretera Panamericana unisce l’Alaska a Buenos Aires passando per Città del Messico, Quito, Lima e Valparaiso, e di lì continua fino a Ushuaia, l’estremo sud (fin del mundo). In totale sono circa 45000 km. La strada, ideata nel 1923, si proponeva un’utopia, e come ogni grande amore è incompleta. Essa termina infatti presso località Lomas Aisladas (7°38′N 76°57′O), nel lato colombiano, mentre nel lato panamense termina a Yaviza (8°9′N 77°41′O), un paesino di poco più di 4000 anime. È del tutto impossibile attraversare via terra questi 87 km di gap fra le due americhe. Qua, sulla cima del Tacarcuna, sventola l’indigeno kikir (“svastica”) e la luce del giorno non tocca mai terra (per via dell’intricato sviluppo della vegetazione).
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Più a sud, nel ’58, un napoletano di 100 chili versava asfalto bollente su quello che sarebbe stato il tratto cileno della carretera. Questo contribuire all’utopia compensava in lui la durezza del lavoro – dieci massacranti ore di turno – e la sera tornando a casa non mancava di guardare le vicine stelle nel cielo così basso e di cantare qualche strofa di un pezzo origliato qua e là.
Una notte, tratto in una locanda dallo sguardo di una ragazza, si scolò tante birre da farne una piramide. Troppo sbronzo per tornare a casa, lo accompagnarono due operai che lo conoscevano di vista e ne ammiravano il fisico statuario e possente, da eroe dei miti. Quando i due chiusero la porta, ridendo ancora per la figuraccia che il napoletano aveva fatto con la ragazza, un sogno era già iniziato. Tutto era come nella realtà, solo un po’ diverso.
C’era lui ma era più grasso e portava la barba. Non era un nuotatore, né un operaio, ma un venditore di macchine a Caracas. Quindi era un attore del cinema e tutti conoscevano il suo nome (un nome straniero, che lui ignorava). Poi c’era lui che componeva canzoni e incideva dischi – sicuramente una distorsione onirica del suo cantare stonato – lui che s’improvvisava stilista e disegnava pantaloni, lui che fondava una compagnia aerea o che scriveva libri. C’erano varie versioni di lui. Nel sogno poteva parlare sei lingue diverse. A un certo punto nel sogno c’era lui in via dell’Umiltà, a Roma, dove un partito di destra gli aveva proposto una candidatura. Invecchiava, nel sogno, ed era un padre affettuoso. Nel sogno moriva il 27 giugno del 2016, in un pomeriggio caldo, bollente come l’asfalto che versava sulla strada, esattamente alle 18:15. Non c’era tristezza nel sogno, ma solo tanta gratitudine.
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La mattina dopo il napoletano non ricordava nulla né del sogno né della ragazza. Quando lo videro arrivare in cantiere, i due operai della sera prima gli fecero un cenno con la testa, un cenno d’intesa, quindi iniziarono a ridere sotto i baffi e a darsi di gomito. Fu allora che il napoletano si tirò su le maniche e, avvicinandosi lentamente quasi fosse certo che non sarebbero scappati, disse loro con la faccia più seria possibile: «Non l’avete fatto apposta».
E poi parte questa.
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