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Non sono un patito di Luca Guadagnino, anzi, ma un’estate, vedendo il film Io sono l’amore, che tra l’altro proiettavamo noi con il blog (e che simpaticamente chiamavamo “il film sui catering”), ho sentito nel finale l’emozione che il regista aveva avuto in mente di trasmettere, qualunque cosa fosse.
Un regista è un uomo la cui visione è impedita dai mezzi che ha, è frustrazione e sogno, finché non smette di essere giovane e trova: mezzi alternativi, i soldi per i grandi mezzi (l’America). “Un regista è un uomo che pensa infiniti film e ne fa alcuni per puro incidente” (Tornatore). Suspiria è un film che Guadagnino ha sempre voluto fare, ma non poteva. Quindi per primo ha girato Melissa P (il peggior film del 2005 secondo Ciak) e ci ha insegnato che così si diventa grandi.
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Di Dario Argento riconosco l’inventiva registica, la carica rivoluzionaria nell’uso della musica e dei colori legata a un genere che in Italia è praticamente scomparso. È più difficile però trovare in Dario Argento l’introspezione e la grazia di Guadagnino.
Il passo di valzer di Thom Yorke sta a Guadagnino come il martello rock dei Goblin sta a Argento. La complessità, la suggestione e la piega che nasconde sono sempre davanti alla chiarezza e alla prosaicità: non a caso Guadagnino ringrazia per primo Paul Thomas Anderson.
A questo proposito si è detto che nel finale Mater suspiriorum è la più cattiva ma anche la più buona. È vero, ma se i cattivi alla Freddy Krueger spaventano solo i bambini è proprio perché sono ottusi. Le streghe invece sono esseri politici e contraddittori e compiono il male esattamente come noi. Per vendetta, per distrazione, per banale egoismo. Il male è la manifestazione più cristallina della volontà e le streghe, come noi, vogliono solo esistere.
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Le streghe sono donne di spirito, mangiano e si danno di gomito come vecchie zie a Natale, indossano giacche consunte, si fanno la treccia e fumano un sacco di sigarette mentre leggono il giornale.
È la paura mascherata da eccitazione della vigilia e dei compleanni, l’euforia inspiegabile che si insinua nelle scanalature della depressione quando muore qualcuno.
È una paura che monta piano e come la panna trova, da un punto discreto in poi, una sua struttura solida.
È una cosa rara, mi pare, che il terrore ti sieda accanto per tutto il tempo e con discrezione avvicini la sua mano alla tua, la sfiori e la prenda dolcemente, invece di farti bu! da dietro l’angolo.
Il male è sottopelle come in Polanski.
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Il problema è quindi anche politico. Come dice il critico Alò, le fazioni all’interno del partito stregonesco ci ricordano molto quelle di un qualunque partito in giro per il mondo, diciamo un PD – nel caso, Madame Blanc è Renzi e Helena Markos D’alema, evidentemente. La scena (SPOILER) in cui si vedono i votanti della fazione sconfitta venire uccisi per esplosione della scatola cranica ci mostra quello che sognava Renzi quando parlava di rottamazione.
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Il film parla della rivoluzione, della nuova corrente, del nuovo ideale, che prende le redini del partito.
Il film parla del futuro (che arde e respira nell’orgia di sangue) e di come dimenticare sia necessario e liberatorio.
Il finale, in questo, è splendido: le iniziali A e J incise sul muro sono il ricordo di un amore che fluttuerà nell’oblio per sempre. “Noi abbiamo bisogno della colpa e della vergogna, ma non la sua, dottore”. Mater suspiriorum concede il superamento del passato a Klemperer (un personale Vergangenheitsbewältigung), come ha concesso la morte alle dolci ragazze rovinate dalle streghe.
È quindi un film sul lutto e sulla morte ma anche sul potere benefico del cambiamento, un romanzo di formazione (e deformazione) da cui si esce stranamente purificati, per quanto sghembi e tremanti.
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Nell’epoca dei film “carini” dominata in Italia dai drammoni sulla famiglia e sulla provincia e dalla commedia popolare scureggiona, film come Suspiria andrebbero accolti aprendosi letteralmente il petto come fa Susie Bannion alla fine del fitto e complesso ordito magnificamente girato dal palermitano con gli occhi pesti.
La sola Dakota Johnson basta e avanza, anche se altri hanno giustamente goduto di più nel vedere Tilda Swinton interpretare ben tre ruoli, in un film in cui agli unici marginalissimi attori uomini si titilla l’uccello col temibile artiglio (scena apice del movimento metoo?).
Epilogo
Durante la scena successiva al sabba, in cui Kemplerer viene accompagnato fuori dalla scuola Tanz da Miss Vendegast che gli canta la ninna nanna di Brahms (dal testo per niente rassicurante), nel cinema c’era un’atmosfera nervosa, discordante ed elettrica, carica di assurdo. Fra chi rideva per il ridicolo in cui era caduto il film – involontario, diranno alcuni, volontario diranno altri –, chi si portava una mano alla bocca senza saperlo, chi scuoteva la testa e chi annuiva deciso, una parte di me subiva l’incanto e l’incantesimo che Guadagnino provò nel vedere per la prima volta il manifesto del capolavoro di Argento.
È una lama sottile quella su cui corre Suspiria, noiosissimo e velocissimo, superficiale e profondo, presuntuoso e ambizioso: ma sono i film che fanno gridare al trash e al capolavoro insieme che rendono giustizia al tentativo artistico.
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