Ero infelice. Sentivo addosso il peso delle disgrazie altrui. Non era eccesso di empatia o altruismo, ma quella che il mio analista avrebbe definito sindrome dell’impostore.
Su cosa mentivo? In realtà su nulla, ma più andavo avanti col lavoro, più sentivo crescere la colpevolezza del baro. Non avevo necessità di mantenermi, ma la mia famiglia ha un forte senso civico del lavoro, perciò volevano, o meglio, pretendevano che non mi impigrissi all’idea di ereditare la loro attività senza nessuna gavetta. Quindi mi facevano lavorare per loro come dipendente, frattanto che terminavo gli studi.
Di che ci occupiamo? Terziario della comunicazione: offriamo servizi per il web.
All’epoca ero bassa manovalanza: addetta al data entry. In cosa consiste? Inserire dati. Compilare schede e cartelle online… decine al giorno, centinaia al mese, migliaia all’anno. Competenze richieste? Memorizzare un automatismo e ripeterlo all’infinito, cercando di essere svelti e precisi. L’equivalente online degli scaffalisti della GDO. Per questo il personale era in prevalenza giovane e vario. Ho avuto un ricambio infinito di colleghi.
All’inizio era invidia. Io ogni estate ricoprivo lo stesso ruolo, nel medesimo ufficio – di fatto lastricando il mio futuro –, mentre loro cambiavano lavoro, colleghi e città in continuazione – di fatto rimandando il loro possibile futuro –. Questo mese lavoro qui, il prossimo là, e quello dopo ancora… dove? La loro precarietà mi trasmetteva un senso di libertà e indipendenza. Gli eroi son tutti giovani e belli, qualcuno cantava.
Credevo che tra me e loro potesse esserci affinità di spirito, ma più li conoscevo, più notavo come una certa infelicità fosse l’unica cosa che ci accomunava e, al tempo stesso, distanziava.
Io ero infelice perché volevo essere come loro, loro erano infelici perché volevano essere come me. Ci ho messo un po’ a prenderne coscienza.
È successo l’ultima estate che ho lavorato come diretta dipendente dei miei. Avevamo reclutato un gruppo di persone a modo e simpatiche, e tra queste una che divenne una buona amica.
L’ultimo giorno di servizio siamo tutti andati a bere qualcosa di fresco nel parco dietro l’ufficio.
Abbiamo preso birra, granite e gelati in un chioschetto e ci siamo buttati sull’erba, in quello che doveva essere un punto ombreggiato e fresco – col cazzo che lo era: l’albero sfrondato non poteva far nulla. L’erba era secca e gialla, come non vedesse acqua da secoli. Se ci avessi pisciato sopra sarebbe spuntato qualcosa, ne sono certa.
Tutto il parco era in decadenza. Perdigiorno schiumavano su panchine roventi e le anatre annaspavano in pozze umide e melmose.
Col senno di poi, capisco come quel luogo disgraziato riflettesse quanto sentivo dentro. Eppure siamo riusciti a fantasticare di vacanze: spiagge, viaggi, cibo, gente, cose così. Per poco. Agosto è volato via anche nei sogni e ci siamo trovati a settembre, mese che, come il lunedì, richiede nervi saldi.
La china del discorso ci ha portato dalle coste puntellate di ricci di mare ai viali che costeggiano le periferie di città, e inevitabilmente ognuno, davanti a quel panorama tossico – dove l’unico modo per sopravvivere è scaricare il costo della propria infelicità su chi sta un gradino sotto di noi –, si è sentito in dovere di confessare le proprie misere condizioni.
A sentirli provavo qualcosa di sconosciuto. Una consapevolezza che non riuscivo a definire erodeva la spensieratezza e il romanticismo delle figure che avevo conosciuto e idealizzato.
Dov’erano le affinità elettive che pensavo ci legassero? Mi scoprii nuda e smascherata. Colta ad abbeverarmi a una fonte di infelicità diversa, non avevo diritto di aderire alla loro causa.
Che fosse tutto nella mia testa mi è chiaro solo ora. Ma lì per lì ho smesso di bere e parlare, ho salutato e sono andata via.
Raggiunto il motorino, l’ho inforcato e mi sono gettata nel traffico, scossa da intermittenti pensieri amorfi.
Vagavo senza meta, infastidita dalle continue deviazioni per lavori in corso, dagli autobus in sosta, dai camion della nettezza urbana all’opera, dai furgoni delle consegne in doppia fila, dai ciclisti contromano, dalle macchine parcheggiate sui marciapiedi, dai clacson e dai fischietti dei vigili. Un caos che mi rompeva la testa.
Così, incolonnata all’ennesimo semaforo, ho deciso di farlo. Col motorino sono salita sul marciapiede, ho sgasato per quanto può sgasare un cinquantino e scansando pedoni che bestemmiavano e cani che abbaiavano, ho saltato la fila e sono arrivata sotto l’incrocio.
La verità? Era la prima volta che lo facevo, anche se avevo visto altri farlo.
Lo so, è da cafoni, ma chi non è cafone alla guida? Chi non lo è, mente o lo diventa per esasperazione. Comunque non mi interessava, volevo solo liberarmi di quel vago senso di oppressione che mi pesava in testa attraverso un gesto così, inconsueto per me.
Ma arrivata sotto il semaforo ho detto: ma sì, facciamola tutta, fino in fondo, la cazzata. Ho dato uno sguardo veloce a destra, a sinistra, mano sul gas, e via. Mi sono lanciata.
Non l’avevo mica visto arrivare, ma se mi avesse centrato meglio, in quel momento, non mi sarebbe dispiaciuto.
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