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In fuga dalla bocciofila

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So long, Apu

1 Novembre 2018 di giovanni ceccanti

Non è ancora sicuro ma Apu Nahasapeemapetilon potrebbe lasciare per sempre i Simpson.

Forse sarà rispedito con sua moglie Manjula e i suoi otto gemelli in India, nel Rahmatpur, nonostante abbia con fatica ottenuto la cittadinanza americana; forse sarà fatto morire come è morta Maude, la moglie di Ned Flanders, per colpa – come sempre – del senza rimpianti Homer; o forse scomparirà nel nulla, come il dottor Marvin Monroe, per ricomparire qua e là in episodi del futuro come un fantasma cui si incastra il culo nelle pareti che attraversa.

Quel che è certo è che il documentario The problem with Apu di Hari Kondabolu (2017) ha risollevato (l’ha tratta di sotto i tappeti) la questione degli stereotipi razzisti mettendo pressione ai produttori della trentennale e popolarissima serie, fino al probabile esito di fare fuori il personaggio.

«Alzi la mano chi si è sentito almeno una volta chiamare “Apu” con intenzioni discriminatorie» chiede Hari ai suoi amici indiani.

Tutte le mani sono alte.

Certo, se Apu fosse davvero cancellato, si creerebbe un precedente e si innescherebbe qualcosa che forse non vogliamo davvero. Di questo passo – il passo di guerra del politicamente corretto – saranno sempre di più le cose di cui non potremo parlare a una cena tra amici, come mostra bene questo sketch del Saturday Night Live.

Di stereotipi razzisti o classisti nei Simpson ce ne sono infatti molti altri: dal cuoco italiano Luigi Risotto, di Pozzuoli, a Hyman Krustofsky, il padre rabbino di Krusty il clown; da Pedro, l’uomo ape, ispirato al personaggio della tv messicana El chapulìn colorado, a Brandine e Cletus, i bifolchi genitori di decine di bambini deformi e affamati; dagli agenti Eddie e Lou, che in italiano parlano napoletano e barese o siciliano (Lou in inglese è doppiato dallo stesso doppiatore di Apu), a Üter Zörker.

I mafiosi, i pugili, i baristi, gli imprenditori, i poliziotti, le gattare, gli ecologisti, i vegani, i preti, i giapponesi, i francesi, i giornalisti, Paul McCartney, i bulli, i nerd, i vecchi, gli omosessuali: tutti i personaggi dei Simpson sono degli stereotipi.

Lo stesso Homer Simpson, evidentemente, è uno stereotipo che usiamo con facilità. Stamattina per esempio ho visto il tipico “Homer Simpson” che – giuro su Dio, il Dio barbuto e canuto dei Simpson (un altro stereotipo) – si mangiava un donut al cioccolato davanti a Palazzo Vecchio mentre sua moglie – una Marge meno blu – “prendeva una foto di lui”.

La verità forse è che tutte le persone del mondo sono dei personaggi e finiscono col tempo per cadere come palline da ping pong nei bicchieri di plastica degli stereotipi. Stereotipi meno grezzi e tagliati con l’accetta di quelli dei Simpson, certo, ma non per questo meno rassicuranti.

Quanto mi rassicura, quando insegno italiano, includere la persona che ho davanti in una categoria. Quanto è pacifico cadere nella trappola. Allora, inconsciamente, inizio a parlare dei maccheroni al sugo bolognese che mi sono mangiato ieri, parlo della mafia e di Berlusconi – «ma finché c’è o’sole e o’mare…» – e conquisto le ragazze con un sorrisiello che te lo dico a fare.

In quel momento le dita della mia mano destra si uniscono e rivolte al cielo oscillano avanti e indietro in un movimento che ricorda la zampa del gatto giapponese che chiama a sé.

I produttori hanno provato a mettere una pezza allo spinoso “problema Apu” nella puntata No good read goes unpunished (stagione 29, puntata 15), in cui Lisa si chiede com’è che una cosa che ha fatto ridere per tanto tempo diventi improvvisamente offensiva, senza per il momento darsi una risposta, ma non è bastato. Allora è stato proposto al pubblico stesso di scrivere qualcosa – fattelo te il panino! – una sceneggiatura che concedesse ad Apu una seconda e meno scandalosa vita. Ma ancora niente.

Quindi, forse, il Jet Market è destinato davvero a chiudere. 

Serpe non lo rapinerà più, i bulli non ci ruberanno più le caramelle né Homer ci comprerà più la sua amata birra (quanto ti sento vicino, caro Homer, dopo l’ordinanza Nardella sui paki).

Nessuno – questo è poco ma è sicuro – prenderà più in giro la statua di Ganesh.

Oppure, com’è stato proposto da Vishaal Buch, un dottore del Maryland (col suo bell’hamburger colante cheddar), Apu si emanciperà dallo stereotipo, diventerà un uomo d’affari e perderà quella buffa inflessione nel suo inglese.

Chissà, potrebbe anche essere.

Nel caso mi offro. Sono un ottimo insegnante.

 

 

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Postato in: Cartoline dal foyer, Oceani di autoreferenzialità Tag: apu, beer pong, giovanni ceccanti, homer, jet market, Kwik-E-Mart, maneki neko, simpson, stereotipo Fai un commento

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