Il tavolo aspettava paziente, godendosi ogni attimo. Osservava la ciotola in ceramica, i sottobicchieri in marmo, il portagioie di vetro che rivelava le sue sfumature rosa. Sentivano la lama di sole, fisica, che attraversava la stanza per appoggiarsi su ognuno di loro.
Intorno c’era silenzio: il tetto premeva bene sui piloni che scaricavano a terra il peso della casa, le tegole stavano appoggiate sulle loro guaine e scintillavano ancora umide, le travi che tagliavano la stanza erano tese, tiravano e tenevano in ugual misura, senza fatica. Tutto era sereno.
Quando versò l’acqua bollente, il vapore mosse l’aria, prepotente. Il contorcersi delle minuscole foglioline nel filtro assomigliava ad una terribile ecatombe. Le immaginava verdi, ancora attaccate alla pianta, felici o – poiché questo era impossibile – tranquille, vive. Chiuse gli occhi e strinse la mascella: bere tè verde era una delle poche cose che ancora riusciva a fare da solo. Si sforzò di vedere la tazza, il filtro, per quello che erano: oggetti, costruiti per uno scopo, strumenti di un’idea. Fare una tazza di tè. Non soffrivano, non pensavano, non portavano rancore. Non erano da difendere, non gli volevano bene. Se fosse morto non avrebbero pianto, né si sarebbero disperati.
Si versò mezza tazza.
– Mi basta – disse. Non si offrì di versarne una anche a me. Presa la sua – senza zucchero, senza cucchiaini a torturare l’acqua – e si sedette guardandomi con aria colpevole.
– Sta peggiorando, lo so. Non serve che lo dica.
Dal mare si alzò il vento. Rimanemmo ad ascoltare il rantolare delle grondaie. Era un lamento profondo, metallico, assomigliava a un borbottio sconsolato. Saliva dalle cantine e i tubi lo portavano in giro per la casa.
– Lo sente? È stato lui il primo.
Lo sentivo. Ne avevamo parlato per mesi.
– Lo sa che è il vento che entra dalla carbonaia rotta. L’abbiamo scoperto insieme, si ricorda? Perché non la ripara?
Non rispose. Il lamento si avvicinava e allontanava con le folate, ora più forte, ora impercettibile. A parte quello, gli unici rumori erano i nostri respiri, la tazza sollevata e riappoggiata sul tavolino in legno con una prudenza eccessiva, quasi fosse fatta di gusci d’uovo, e i pochi sorsi di tè che si costringeva a bere.
– Non le piace?
– Mi piace molto, viene dallo Sri Lanka, difficile da trovare.
– Le dà fastidio che la soddisfi? – gli chiesi.
Scosse la testa e sorrise. Posò la tazza.
– Guardi che non siamo in terapia. Lei è venuto a trovarmi come amico, si ricordi.
Sorrisi anch’io. Mi sistemai sul divano incrociando le gambe e per l’ennesima volta vidi chiaramente che era uno sbaglio essere lì. Che non sarebbe servito.
– Da quanto non mangia?
Si toccò lo stomaco. Era dimagrito ancora.
– Ho visto il suo orto qui fuori. Sembra tutto pronto per essere colto.
– Non posso, lo sa. Faceva tutto Anna. Io dovevo chiudermi in casa per non sentire le forbici e i coltelli. Tutto quel tritare, sminuzzare, ho la nausea a pensarci.
Guardavo l’ingresso pulito e luminoso, le piante rigogliose alle finestre, e avevo l’impressione che tutto si stesse consumando dall’interno. Sotto i movimenti precisi e lenti sentivo una furia implacabile che finiva per divorare: toglieva ogni gesto, punendo come un maoista della rivoluzione culturale. E, di nuovo, avrei voluto infilarci le mani per capire quale colpa meritasse tutto ciò.
– Ascolta ancora Bach?
Scrollò le spalle indicando lo stereo in un angolo.
– Solo alcuni pezzi per flauto solo. Violini, violoncelli, viole, l’archetto che graffia le corde, non più. Nel pianoforte le corde sono letteralmente prese a martellate. Il clavicembalo le pizzica, come l’arpa o la chitarra.
– E un sintetizzatore? Ha mai provato con qualcosa di più moderno?
Mi guardò come se fossi stupido.
– La batteria. La pelle tesa all’inverosimile e poi presa a bastonate a una velocità folle. Il rullare di una batteria assomiglia a una mitragliatrice per un motivo.
Aveva tutte le luci della casa accese nonostante fosse giorno. L’abat-jour sul tavolino accanto a me, il lampadario al centro del soffitto, i faretti in corridoio. Allungai una mano cercando l’interruttore.
– Cosa fa? – gridò – Non spenga, non spenga niente. A lei piacerebbe finire annegato? Come respirano se le spegne?
Mi guardò spaventato.
– È una lampada – dissi – è fatta per essere accesa e spenta.
Arrossì per la rabbia.
– Siete tutti così: posso e quindi devo. Chi non ha voce non esiste. Etichettate e decidete cosa valga la pena e cosa no. Mi fate schifo.
Poi d’improvviso: – Schifo! – batté i pugni sul tavolino che per la forza si rovesciò. La tazza, ancora piena, disegnò un arco in aria, roteando su sé stessa, prima di finire a terra in mille pezzi. Lui sbiancò. Si mise in ginocchio, piangeva, balbettava schiaffeggiandosi sempre più forte. Mi alzai per raccogliere i cocci e lui mi spinse via.
– Non la tocchi. Non deve toccarla.
Vedevo la maglietta coprire i sussulti della spina dorsale, le testa stretta fra le mani. Piangeva coccolando i frammenti di ceramica: li raccoglieva uno ad uno e se li metteva nel palmo. Rimanemmo così per dieci minuti. Lui piagnucolava, io l’osservavo.
– Faccia qualcosa, la prego – disse – Voglio sentire meno.
E poi, dopo un po’: – È tutto sbagliato. Tutto crudele.
Le travi, il tavolo, le doghe del pavimento, i libri sugli scaffali, le maniglie delle finestre, tutti ci guardavano stupiti e perfettamente immobili.
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