È un buon periodo. È un ottimo periodo. Per tanti motivi, tanti che non sto qui ad elencare, neanche a nominare di sfuggitissima. Ma sono quelli che potete immaginare, che sono validi sempre, che sempre sono stati validi nella storia dell’umanità.
Va bene, cedo alla tentazione di dirli: una famiglia, un lavoro, una casa. Ma non è solo per questo che è un buon periodo. C’è anche questa cosa che se tutto va bene, salvo guerre o crisi economiche, presto uscirà un romanzo che ho scritto io. Il mio primo romanzo. Forse l’unico, chissà. Io di questa cosa sono così felice che mi viene da piangere.
Non so bene perché mi rende felice: non è per sconfiggere la morte che lo faccio, non per durare nei secoli. C’è sicuramente un pensiero rivolto a questa passione che porto avanti come fiume carsico da tanti anni, e che sembra tra poco verrà fuori esplicitamente (ma c’è sempre stata anche quando vi era la siccità, quindi che importa davvero che il libro sia pubblicato? Niente, in effetti. I racconti sui blog vanno benissimo. Non so, mi sto impegolando, non volevo andare in questa direzione).
È un periodo bello. È giugno. Fa caldo, ma la mattina è ancora fresco. Mi sono trasferito in un quartiere nuovo. Le strade sono sconosciute. I nomi delle vie. Ancora il mio cervello non ha imparato a portarmi a casa. Mi porta alla vecchia strada. Esco la sera ed è caldo, ma non opprimente. Vado al cinema, la mattina in biblioteca, poi entro a lavoro: tutto come sempre, o quasi. Perché c’è questa cosa del romanzo che deve uscire, che mi fa alzare dal letto più in fretta, mi fa sentire un vento sul collo come stare sotto il patio di palazzo Guadagni, con degli amici carissimi.
Penso a cosa succederà. Ogni pensiero che faccio in questo senso, lo so, è sbagliato. Pensare le cose prima che accadano fa sì che le cose poi andranno diversamente. Questo era il mio credo, da bambino cartesiano prima che lo studiassi all’università. Ne parlo e dico cose tutte sbagliate, a chi mi chiede del libro. Dico che parla molto di me e dei miei amici, ma non è poi così vero. Cioè se ne parla, tutto è quasi aderente al vero, ma il punto non sta là. Credo che le cose di cui si parla in quel libro siano delle buone storie, tutto qui. Che possano interessare anche a qualcuno che mi è lontanissimo. Poi le persone mi chiedono il titolo: come si chiama il tuo romanzo, e la verità è che non so rispondere. Non c’è nessun titolo, ad oggi. È un figlio senza nome, che si agita tra cartelle del computer e giri di revisioni. Rispondo più facilmente ad altre domande, ma spesso sono domande mentali: a chi ti sei ispirato per il tuo romanzo ancora senza nome? E la risposta a questa domanda la so: mi sono ispirato a due autori, uno scrittore e un regista: mi sono ispirato al DeLillo di Body art e a Sieranevada di Puiu, cioè mi ci sono ispirato a loro due, ma solo dopo che il romanzo l’avevo già finito.
Come sarebbe a dire? Non ci si può ispirare qualcosa a posteriori, risponde colui il quale mi fa la domanda.
Eppure è così.
Il primo riferimento DeLillo mi è stato suggerito daVanni Santoni, che ha letto uno stato embrionale del romanzo e in effetti l’inizio del mio romanzo DeLillo me lo ha scopiazzato di brutto, circa trent’anni prima che io lo scrivessi.
Il secondo riferimento è Puiu e il suo film Sieranevada: me ne sono accorto ieri sera. Il film parla di una cena e ci sono tanti personaggi non molto definiti che a poco a poco vengono fuori, o non vengono fuori, ma parlano di alcune cose. Come faccio anche io nel mio romanzo.
Ovvio, mi piacerebbe che il mio libro fosse buono come sono buoni quei lavori. Non mi illudo sia altrettanto buono, ma non per questo mi butto giù. C’è del buono nel mio libro, io di questo sono convinto.
Poi penso ancora al titolo del film del rumeno, al perché di quel titolo che non c’entra niente, e mi convinco sempre di più che sono debitore al rumeno per il mio libro, pur senza saperlo.
Mi ripeto che l’ultima parola sul titolo spetta all’editore, forse sarà un titolo che non c’entra niente, o forse c’entra ma in un modo che non so capire fino in fondo, che ha senso dopo.
Ascolto musica nelle cuffie nella biblioteca a vetri che si fa sempre più calda, penso che è un buon periodo, che un titolo in fondo non cambia la mia vita, o forse la cambia davvero tantissimo, ma non devo sforzarmi di capire tutto. Andare al cinema di lunedì vicino alla casa nuova è più che sufficiente.
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