Siamo gettati nelle cose e solo a posteriori possiamo tentare di dargli un significato.
Quando la mia amica G decise, di comune accordo col suo compagno D, di convolare a nozze, pensai subito, conoscendola, a cosa sarebbe stato il suo addio al nubilato.
Il gruppo whatsapp generato un paio di settimane dopo l’annuncio – un tempo fisiologico, immagino, come i funghi dopo la pioggia – portava fiero il nome di “Le cagne a spasso”. Un campanellino avrebbe dovuto suonare. Al tempo stesso qualcosa, dalla conversazione infinita che ne scaturì, una babele di gif di cazzi, selfie con la lingua di fuori e goliardate varie, doveva essermi sfuggito.
Il corpo fruttifero rappresentato da quel gruppo era la sola manifestazione visibile di un mostro ben più grande che covava sotto – l’intricata e sterminata rete delle ife.
I funghi sono gli esseri più grandi sul pianeta Terra. E così la vergogna.
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Avevamo preso in affitto per una notte uno stanzone stile festa delle medie. Noi, le cagne, andammo a spasso per tutto il pomeriggio, un lungo codazzo dietro alla sposa che portava, come segno distintivo a metà tra l’onore e la colpa, un copricapo di piume di struzzo da cui pendevano una decina di venosi piselli di gomma. Alla fine, dopo una serie di ilari soste in vari bar, dove il malcapitato barista veniva costretto a offrirci shottini di alcolici di colore bianco e consistenza possibilmente cremosa (oltre a prestare – sotto minaccia – il suo corpo per simulate fellatio in favore di camera) bendammo la sposa e la portammo allo stanzone.
Quello che seguì avrebbe mantenuto le caratteristiche della commedia demenziale americana ma per via del mio carattere e dei presagi cui ho fatto menzione sopra, nel momento in cui entrammo nel famigerato stanzone – nel modo più schiamazzante e rumoroso possibile – mi sentii piuttosto in un film norvegese o danese: mi sentii in un film dogma.
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(Avevo letto in un sito che secondo un’antica tradizione giapponese la sposa doveva ricevere in volto lo sperma di tutti gli invitati come augurio di prosperità alla coppia. Con il tempo poi questo rituale avrebbe assunto una veste più simbolica. Magari, pensavo, lo sperma era stato sostituito dalla panna sulla torta nuziale o dal riso lanciato fuori dalla chiesa.)
Ci disponemmo in cerchio a aspettare.
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Io e G, trentasei anni suonati (come del resto la maggioranza delle altre cagne), avevamo dei trascorsi. A sedici anni avevamo perso entrambe la verginità nel bagno di F, complice lo stesso F, e non l’avevamo più ritrovata.
Intorno ai venti, per gioco, ci facevamo di metanfetamina praticamente ogni pomeriggio.
Avevamo vissuto insieme a Rotterdam con un vecchio cacatua dal ciuffo che ballava ogni volta che una di noi rideva.
E se tre indizi fanno una prova è pure vero che il tempo – grande scultore – ha finito col fare anche a noi quella sua cosa: ci siamo perse di vista. Io sono diventata una psicologa (lacaniana), vivo in campagna e coltivo l’orto, lei è un’infermiera con la passione per la barca a vela (ma senza abbastanza soldi per perseguirla – donde la storia con D) e adesso era seduta su una sedia di plastica in uno stanzone illuminato al neon, bendata, completamente ribaltata dagli shottini e smascellava impercettibilmente.
Iniziava proprio adesso e era uno spettacolo suggestivo, mi sembrava di assistere al risveglio di un grosso mammifero dopo il letargo o allo sbocciare in slow-motion di una primula nella bruma mattutina.
Il cristallo che si era sgranocchiata come una Tic Tac stava iniziando a salire.
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Quando entrarono i due spogliarellisti era ormai impossibile distinguere fra entusiasmo reale e entusiasmo isterico e lisergico.
Le casse pompavano una playlist trash qualunque.
Come accade in queste situazioni è necessario che “ci si lasci andare”, sennò pare brutto, e poi “ci si sposa una volta sola”, eccetera eccetera. Uno dei due spogliarellisti – in quello che credetti essere, povera cretina, un eccesso di intraprendenza – si fermò immediatamente dalla prima di noi che aveva incontrato e le si attaccò come fanno a volte i cani alle gambe degli sconosciuti, il che era doppiamente comico perché era vestito da orso bruno e il costume gli consentiva comunque una mobilità ridotta, tipo mascotte del Super Bowl, oltre che un disagio al suo interno che oso solo immaginare – interno del costume, non parliamo dell’essere umano.
L’altro invece (più spavaldo?) guadagnò il centro del cerchio e iniziò una serie di mosse che da ora in poi definirò, per comodità, “coreografia”. Era vestito da indiano, ma non nel senso di indiano delle riserve, con le piume e le frecce, indiano nel senso che aveva un puntino rosso sulla fronte e un gilet da Aladdin sopra la tartaruga e i pettorali depilati.
Mi venne il dubbio su quale fosse il tema dello spettacolo e quale la relazione fra il tema e G, ma si faceva spazio dentro di me la convinzione che potesse trattarsi degli unici costumi a loro disposizione e che il punto non fosse il tema, e neppure lo spettacolo.
Mi chiesi chi di noi si fosse incaricata di fare il giro di telefonate per trovare questi due tizi. Chi avesse anticipato i soldi, chi avesse fatto loro il bonifico. Mi chiesi a che punto della conversazione nel gruppo whatsapp era stato fatto il sondaggio per votare spogliarellisti sì / spogliarellisti no e perché me lo fossi perso. Ma soprattutto mi chiesi a che punto sarebbe finito lo spogliarello, se erano stati presi degli accordi, se c’erano dei segnali che potevamo fare per farli smettere, delle parole di sicurezza. Mi chiesi che ne sarebbe stato dei loro cazzi.
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Ed eccoci al loro pezzo forte, lo cheval de battaille.
L’orso, ormai decapitato e scuoiato, continuava nel suo tour sedia per sedia, muovendo il pacco su e giù davanti alle facce ora partecipi in modo divertito, ora cercando di dissimulare l’imbarazzo affettando un imbarazzo più social, un imbarazzo da scolaretta innocente, ora mostrandosi invece stranamente coinvolte, accennando un morsetto, una leccatina, una toccata, persino, se altre la incitavano – e altre ovviamente la incitavano, era come veder succedere una rivolta, la pancia putrida del popolo che azzanna il potere, i ciompi che tirano giù i banchieri dai cavalli e li massacrano vivi in mezzo alla piazza.
Reazione a catena. Se qualcosa può succedere succederà. Oppenheimer. La bomba H.
L’indiano continuava la sua coreografia e piano piano notava quanto non fosse più al passo coi tempi, quanto le cose, intorno a lui, si stessero scaldando. Così si guardò un po’ in giro e vedendomi accigliata, leggermente in disparte, fece quello che animatori e teatranti in genere fanno sempre e non possono evitare di fare, come a seguire un loro istinto ferino e profondo, quando hanno davanti una persona timida e che morirebbe piuttosto che essere coinvolta nel loro spettacolo: mi coinvolse.
Mi venne davanti e mi tese una mano come dire “vieni con me”, o anzi “ti fidi di me?”, come Aladdin quando chiede a Jasmine se vuole vedere il mondo sul suo tappeto volante.
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E allora successe quello che non si può prevedere. Il prodigio, il raggio verde, la fata morgana. Gli dissi di sì. Tesi la mano. Saltai sul suo tappeto volante. E non fu per assecondare il delirio in corso, non fu perché ci si sposa una volta sola o per solidarietà verso G – G che ovviamente nel frattempo era stata sbendata e adesso teneva in bocca il perizoma dorato dell’orso, orso che stava facendo l’elicottero esibendo un’ammirevole coordinazione – e non fu neppure per la droga, visto che non l’avevo presa, e la maggior parte degli shottini avevo finto di berli tirandomeli di lato – tanto nessuna se ne sarebbe mai resa conto: era un sì alla vita, questo, o l’occasione di essere al centro dell’attenzione? Stavo forse diventando il degradante cliché di una storia scritta da uomini?
In piedi in mezzo al cerchio, iniziai a assecondare le mosse pitonesche dell’indiano, stupita sempre di più da me stessa e sempre più beata degli sguardi esaltati e incitanti delle altre che mi inneggiavano, letteralmente, che avevano improvvisato un coro col mio nome – R! R! R! R! – mentre l’indiano tirava fuori da non so dove una panna spray e non so perché pensai alla più trita e banale delle frasi di Lacan, quella che dice che l’amore è donare qualcosa che non si ha a qualcuno che non lo vuole.
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Ora mi sveglio. Mio marito ha raccolto le patate, le ha messe sul tavolo – sento il loro rotolare verso i lati.
Piove.
Siamo gettati nelle cose e solo a posteriori possiamo tentare di dargli un significato.
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