Sono quasi sicuro di essere stato, nella vita precedente, una ragazza di Harlem. Ogni sera, quando chiudo gli occhi, mi vedo camminare per St. Nicholas Park, sfoggiando una pettinatura afro e un cappotto sgargiante. Dev’essere quel cappotto che Johnnie mi ha comprato la settimana scorsa, una volta usciti dal cinema. Il film era Written on the Wind e Dorothy Malone risplendeva in abiti coloratissimi, folli e impeccabili. Così, usciti dalla sala, il mio Johnnie ha messo insieme i pochi spicci che gli rimanevano e me ne ha preso uno uguale. Camminiamo mano nella mano nel parco, gli sguardi che si incrociano in silenzio, e la vita non è più altrove. Johnnie mi avvolge con un braccio e mi stringe a sé. Sento il suo torace contro il cappotto nuovo. Le nostre labbra si sfiorano e il tempo si ferma.
È in quell’attimo, al confine tra l’estasi melodrammatica e il più ridicolo dei cliché, che un barlume di coscienza si fa strada. E il me che dorme pensa che no, forse non è la mia vita precedente, forse è solo una fantasia melodrammatica neanche tanto vagamente gay.
Sia come sia, questo guizzo di consapevolezza sembra aver spezzato la magia del sogno. E un attimo dopo, mentre porto una sigaretta alle labbra e le volute di fumo si disperdono nell’aria, il mio Johnnie ha assunto un dolente fascino orientale. Il mio vestito di seta a fiori, che avvolge il collo e lascia libere le spalle, riempie di luce i vicoli bui in cui ci siamo rifugiati per sfuggire alla pioggia. È un amore impossibile il nostro, che si consuma unicamente negli sguardi. Le nostre mani, che vibrano di emozione, incapaci di sfiorarsi; le gocce di pioggia sul selciato, pudiche, coprono il rumore dei nostri cuori. Johnnie mi racconta di aver sussurrato i nostri segreti in una fessura tra le rocce, in un altro tempo e in un’altra vita.
Quando smette di piovere e l’aria si fa tiepida, continuiamo a vagare senza meta, inebriati dalla melodia di un languido violino cinese. La inseguiamo per i vicoli, la cerchiamo dietro le finestre sbarrate. Ci ritroviamo di fronte a un bordello, uno degli ultimi in città. L’insegna recita: Flowers of Shanghai. Quando ci addentriamo, gli occhi fanno fatica ad abituarsi alla flebile luce delle candele. L’aria è satura di fumo e le conversazioni ridotte a bisbigli. Le cortigiane, le ragazze-fiore, si affacciano per pochi istanti da dietro i paraventi. Una delle zie, con un gesto sinuoso, ci introduce a un tavolo da gioco e ci porge un tubo da oppio. Dopo qualche tiro, mi soffermo sugli anelli di fumo, i cui contorni si sfrangiano e si dissolvono, come ricordi o fantasie che sbiadiscono. La zia mi conduce nella stanza di una delle ragazze-fiore. Mi attende di spalle, seduta sul letto, un grande ventaglio fra le mani. Quando si volta, un brivido mi scuote e poi mi paralizza: le sue mani sono le mie mani, i suoi occhi sono i miei occhi, il suo volto è il mio volto. Mi ritrovo a specchiarmi in questo abisso, un vortice nero di fantasie oppiacee che mi taglia il respiro. Sono schiava, rinchiusa in un mondo ipnotico di illusioni di celluloide. Sono il ricordo sbiadito degli struggenti sogni di qualcun altro.
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