C’erano alcuni giorni in cui riusciva a guardarmi. Il più delle volte sembrava una specie di pianta. C’era in lui tutta un’immobilità vegetale. Poi la dimensione animale si ridestava, scatenando una fame impazzita, una rabbia cadaverica, e allora non riusciva più a guardarmi, altrimenti si metteva a piangere.
Più che un uomo, era una farsa violenta. C’erano giorni in cui quella farsa mi terrorizzava. Deambulava per le strade emaciate e le labbra viola. I passanti facevano finta di non vederlo, anche quando perdeva l’equilibrio. Non era divertente guardarlo cadere a terra senza neppure la forza per rialzarsi.
Le pietre del marciapiede sono così significative se le osservi da vicino. Non voglio essere aiutato da nessuno. Lasciatemi qui. Datemi i vostri soldi e scappate. Voglio solo i soldi.
Lo specchio.
Poi, chi sa come, tornava a casa. Muto. Si rinchiudeva in una stanza e grattava l’intonaco dalle pareti, almeno finché ci riusciva. A un certo punto i muscoli del suo corpo si contraevano. Erano crisi spastiche. La contrazione aveva un colore – il ghiaccio – dentro di lui. Ed entrambi, lui e la contrazione, tenendosi per mano, si accovacciavano a terra – la nausea – mentre nessuno veniva in suo aiuto. Il dolore partiva dal centro. Immaginatevi di essere enormi, vasti, uno spazio senza limiti che si propaga come una sfera: un’esplosione nucleare nell’universo, un sole, una stella che si espande inglobando ogni cosa. E quando il movimento verso l’infinito iniziava a rallentare, ecco che dal centro di tutto si irradiava un dolore color del ghiaccio, che lo trasformava improvvisamente in un buco nero.
Cosa vive dentro a questo buco nero dove ogni cosa scompare?
Ci sei tu?
Ci sono io?
Mi guardo allo specchio e piango.
Dalle dita dei piedi irrigidite, progrediva come un lombrico per i polpacci, e nelle rotule e poi su fino ai genitali e allo stomaco e ai polmoni e poi dentro alla scatola cranica. Era la fame. Avere fame di te. Accovacciati. Battere i denti. Il gradiente che oscilla nelle ossa. Le ossa che sentono il ghiaccio. Le dita delle mani che non sono neppure in grado di raschiare l’intonaco. Il vuoto. L’universo vuoto che ti comprime.
Battendo i denti, guardava verso la luce che entrava dalla finestra. La luce è una cosa viva. I fantasmi stanno dentro di lei. Noi li vediamo la notte solo perché sono più visibili. Sono come stelle nel nero. E così lui chiedeva aiuto ai morti e i morti ridevano nella luce.
Poi si alzava e usciva di casa, il dolore color del ghiaccio. E muto si appostava dietro agli angoli delle strade per rubare le borse delle vecchie signore. La nausea. Ma c’era sempre una convulsione spastica che gli impediva di agire. La fame. E come una struttura ossea che si regge in piedi grazie alla luce, non muoveva un passo in nessuna direzione, come una stella dal cui centro si irradia il ghiaccio e implode. Affondando sempre di più nello specchio. Da solo. In questa stanza.
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