Durante la sua orazione funebre, Alberto Moravia si chiedeva cosa l’Italia avesse perso con la morte di Pasolini, avvenuta il 2 novembre 1975 secondo una dinamica ancora non del tutto chiarita.
Per Moravia noi abbiamo perso un diverso ma anche un nostro simile (nel senso che Pier Paolo sarebbe un prossimo mio come Sade lo era per Klossowski), e poi un poeta, un regista, un giornalista, un romanziere, un attore, un saggista, un editorialista, un drammaturgo, un giocatore di calcio, un ciclista e soprattutto un uomo che ogni altro stato del mondo ci invidia. A dire il vero il tono commosso e affranto di Moravia era giustificato dal fatto che Pasolini non era solo uno dei più importanti intellettuali del novecento, ma anche un suo carissimo amico. Quello che Moravia però si dimentica di affermare durante l’orazione funebre è che Pasolini era principalmente un amico di tutti noi e che ancora oggi dobbiamo rimpiangerlo.
Che cosa abbiamo perso con la morte di Pasolini? Quando nel 1975 Pasolini venne assassinato, noi italiani abbiamo perso un pezzo della nostra coscienza critica e ci siamo fatti improvvisamente più omologati. La sua analisi della nascente società dei consumi, senza dubbio in consonanza con pensatori francesi quali Foucault o Debord (solo per citarne alcuni in modo del tutto riduttivo), ha assunto nella sua produzione artistica una forma così originale e potente che ancora oggi risulta disturbante, soprattutto perché il suo cinema rappresenta il tentativo di liberare l’immagine dai legami della metafora, per trasformarlo, con intento letterario, in un discorso indiretto libero, ovvero un sistema eterogeneo e instabile dove soggettività e oggettività dialogano senza dare punti di riferimento allo spettatore. E lo confondono (lo spettatore): noi siamo sempre un po’ confusi di fronte ad un’opera di Pasolini, e proprio per questo siamo sempre un po’ più liberi. Il linguaggio estetico di Pasolini ben rappresenta il salto continuo di registro che è una cifra stilistica denotativa del XX° secolo: dalla mimesis intesa come sacralità, alla violenza più truce e sporca, Pasolini è in grado di sintetizzare questi due poli, l’altissimo con il bassissimo, in singole immagini prive di rapporti dialettici tra loro e che sono una pura percezione, un empirismo divino ed eretico. E’ uno dei pochissimi artisti, filosofi, intellettuali o come vogliate chiamarlo che sia stato capace di far coincidere esteticamente l’alto col basso senza porli in un conflitto, alto e basso senza opposizioni, in un rapporto fluido in grado di smascherare le verità più orribili e quelle più magnifiche dell’umanità.
Pasolini ci ha mostrato chi siamo, chi vogliamo essere, chi vogliamo censurare dentro di noi. Questo suo intento lo ha reso così scomodo per la società degli anni 60 e 70 così che il suo omicidio si è tramutato in un omicidio politico e storico: uccidere Pasolini significa uccidere un modo di pensare, vedere e percepire il mondo, un sistema filosofico e tattile severo, ma giusto, significa ucciderlo continuamente, tutti i giorni. L’Italia, l’Europa, l’Occidente oggi avrebbero bisogno di un Pasolini come psicoanalista. Dobbiamo purtroppo accettare l’idea che potremo curare e analizzare la nostra anima esclusivamente con i libri e i film che è riuscito a regalarci in soli 53 anni di vita e che dopo 40 anni dalla sua morte rappresentano profezie distopiche realizzatesi nel più ovvio dei modi. Dobbiamo quindi tornare a guardare Pasolini come un nostro contemporaneo e ammirare il suo coraggio e piangere la sua morte. Con lui se ne va un pezzo della nostra lucidità, severa, disperata, solitaria, umana. Con lui muore un prossimo mio.
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