«Quando m’arrischio ad uscire vedo solo visacci briachi, truculenti, feroci, armati di pistole, di daghe, di pugnali, di carabine… bestemmiando ad ogni parola bestemmie orribilissime, sozzissime e più che diaboliche contro Maria immacolata».
Così scrive Padre Antonio Bresciani nell’introduzione al suo romanzo L’ebreo di Verona. È il 1850. Siamo a Roma.
Ma facciamo un passo indietro.
Al 1849.
Padre Bresciani, gesuita e letterato, si trova a Roma e da un anno è costretto alla vita da latitante. La città è sotto il dominio della Repubblica guidata dal triumvirato Armellini, Mazzini, Saffi, instaurata dopo l’assassinio di Pellegrino Rossi da parte di Ciceruacchio, «un giovinaccio di passatelle e da zuffe… tristo, infingitore e d’animo fellone e crudo», a capo di una rivolta popolare.
Rossi regge il governo dello Stato della Chiesa su nomina di papa Pio IX, esiliato a Gaeta dopo l’allocuzione del 29 aprile 1848, Non semel, con la quale ritira le truppe pontificie schierate contro gli austriaci nella prima Guerra d’Indipendenza, passando quindi da sostenitore dell’unità d’Italia a traditore della futura patria.
L’aria in quei mesi è tesa: gli uomini del papa vengono braccati e sommariamente, se non quando barbaramente, giustiziati. Ma il regno di terrore dura sino al luglio del 1849, quando le truppe francesi di Luigi Napoleone Bonaparte fanno irruzione in città e rinstaurano il potere dello Stato Pontificio.
Pio IX, rientrato in città, chiama a rapporto padre Antonio Bresciani e lo “invita” a raccontare la vicenda della Repubblica dall’ottica Papale. L’obiettivo è chiaro: mettere in moto una vera e propria macchina del fango contro i nemici della Chiesa, dalle pagine del nuovo organo mediatico del potere papale: “La civiltà cattolica”, rivista gesuita diretta e fondata da padre Carlo Maria Curci.
Bresciani non viene scelto a caso. La sua penna conservatrice è già nota al pontefice. Prima di recarsi a Roma infatti, il gesuita gira per l’Italia con l’intento di educare i giovani ai sani principi della Chiesa. Ma il bel paese, ancora da farsi, in quegli anni è impregnato di strane idee che intossicano, a detta del nostro, gli animi pii. Bresciani le ammonisce, e scrive molteplici riflessioni contro le opere e gli autori che le alimentano: Byron, Schiller, Foscolo, Guerrazzi, d’Azeglio, ma anche Rousseau e Voltaire, sono i bersagli diretti del gesuita.
La sua battaglia ideologica e morale contro il romanticismo e l’illuminismo però, sotto il terrore della Repubblica Romana, prende forma concreta e violenta. La proposta del Papa dà quindi lui una tribuna privilegiata per ergersi a censore e voce che mette il popolo in guardia, riportandolo sotto l’ala protettiva della Chiesa.
Tra il 1850 e il 1852 Bresciani scrive tre romanzi. Tre feuilleton per la precisione, diffusi in allegato alla rivista La Civiltà Cattolica: L’ebreo di Verona, Della Repubblica Romana e Lionello o delle società segrete.
Le tre opere, oltre a drammatizzare ed enfatizzare i fatti storici avvenuti in quegli anni, dipingendo i rivoluzionari come dei pazzi scalmanati assetati di sangue e privi di idee sane, espandono le mire accusatorie anche ai Massoni, ai Carbonari, alla Rivoluzione Francese, ai Mazziniani, ai Garibaldini, ai Comunisti, ai Repubblicani Italiani e in generale a chiunque sia contro la Chiesa, il Papa e lo Stato Pontificio.
Le storie di padre Bresciani sembrano figlie di un’ossessione complottista e delirante, ma in realtà fanno parte di un calcolato gioco di potere e comunicazione. Bresciani non scrive articoli di giornale o saggi critici, perché sa che vengono letti solo dagli intellettuali. Lui vuole arrivare al popolo, e il romanzo d’appendice è lo strumento più adatto.
L’Ebreo di Verona, primo romanzo della trilogia, segue le avventure di un giovane ebreo: Aser, nobile, ricco e bello, che si accompagna a cattive compagnie affiliate a sette segrete (massoneria e carboneria). Il giovane Aser viene imbevuto di ideologie illuministe e letture proibite (i soliti Schiller, Foscolo, Guerrazzi, Byron) che lo portano sulla cattiva strada sino a perdere la donna amata. L’Ebreo di Verona è un tipico romanzo d’appendice: ricco di colpi di scena, di amori traditi, di ideali pericolosi, di personaggi buoni e cattivi e una morale eloquente (Aser, folgorato dalla carità cristiana, deciderà di convertirsi).
Della Repubblica Romana, seguito del precedente, è un romanzo epistolare che vede i protagonisti sopravvissuti rifugiarsi in un albergo in Svizzera, da cui seguono le tragiche vicende della Repubblica Romana per corrispondenza. Il romanzo termina con un cliffhangher degno di una serie TV contemporanea: i tre protagonisti sentono un colpo di pistola provenire dalla stanza di fianco a quella in cui stanno, e corrono a vedere cosa è successo. Lo scopriremo nel terzo e ultimo capitolo della trilogia: Lionello o delle società segrete, che ci racconta la storia di, appunto, Lionello, il suicida, anche lui giovane bello, nobile, ricco e intelligente, ma corrotto dalle cattive compagnie, che finisce per aderire a sette segrete sataniche, tra macabri riti di iniziazione, omicidi, furti, depravazione, gioco d’azzardo, intrighi e sofferenza per le scelte e gli errori commessi, che culminano nel suicidio del protagonista, solo e disperato.
Nei suoi romanzi Bresciani usa tinte forti e macabre, con scene così truci che fanno scuola per uno sceneggiato pulp od horror. L’obiettivo è terrorizzare il lettore, metterlo in guardia da un nemico violento e adoratore del demonio. L’unico modo di salvarsi è rifugiarsi tra le braccia della Chiesa.
Nel delirio dei suoi romanzi non viene risparmiato nessuno che con i suoi ideali possa allontanare il lettore dalla fede in Dio e dalla sicurezza del governo Papale: scrittori romantici, filosofi illuministi, connazionali (Garibaldi e Mazzini su tutti), e fantomatiche sette segrete. Tutti passano sotto il torchio della penna e della fantasia del gesuita.
C’è da dire però che la storia con lui non è stata clemente. Il critico De Sanctis lo accusò di scrivere opere false, che non rispecchiavano assolutamente la realtà. Benedetto Croce disse che gli italiani, per poter apprezzare lo scrittore gesuita, dovrebbero essere scesi a un grado di ottusità mentale e di avvilimento dal quale si è ancora, per fortuna, lontani. Infine, Gramsci definì la corrente di pensiero dello scrittore “brescianismo”, e tutti gli scrittori che a lui si rifanno come i “nipotini di Padre Bresciani”.
Insomma, Bresciani è rimasto vittima del suo stesso meccanismo narrativo: in una sorta di legge del contrappasso, è stato esiliato tra i cattivi delle italiane lettere, come simbolo di una mente al servizio di un fine strumentale e corrotto che aveva il terrore di perdere un potere consolidato.
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