Per due anni sono stato di pessimo umore. Il mio psicologo mi aveva detto che era una normale depressione dovuta al tran tran, al lavoro e a problemi non meglio definiti nel rapporto con mia moglie, che toccava ovviamente anche quello con mia madre, a detta sua disfunzionale e tossico (anche se mia madre era morta da trent’anni, ma questo non c’entrava nulla, cosa ne sapevo io, interveniva rapidamente quel bastardo succhiasoldi), così, visto che non facevo progressi con la normale terapia, mi aveva prescritto dei farmaci che iniziai a prendere con la stessa voracità di un bambino davanti a degli orsetti Haribo. Il malumore, tuttavia, non mi passava. Iniziai anche a fare dei sogni molto vividi, prima delle allucinazioni vere e proprie in cui potevo ritrovarmi a parlare con un piccione venuto a posarsi accanto a me sulla panchina dove fumavo col volto funereo la seicentesima sigaretta del pomeriggio, oppure ascoltando il ronzio del frigorifero mi pareva di poter interpretare quella lingua robotica, una sorta di alfabeto morse elettromagnetico frammesso al rumore bianco con espliciti messaggi diretti a me e a me soltanto, che facessi questo o quello, che lo facessi presto. La tv si accendeva di notte proprio quando andavo a pisciare tentando di uccidere le ore insonni, e i programmi che emergevano proteiformi dall’oscurità erano talkshow turkmeni in cui si parlava del sottoscritto con tanto di interviste e testimoni, o reportage dalle terre martoriate della mia infanzia, dai campi di battaglia della mia nostalgica presenza sulla terra. Una pubblicità mi parlava dritta nell’orecchio, proponendo a modici prezzi un corso accelerato per diventare cavaliere – «la soluzione definitiva ai tuoi problemi!», squillava la ragazza testimonial mentre un jingle medievaleggiante accompagnava lo slogan. Così, capite bene, farmi tatuare il pentacolo simbolo delle virtù cavalleresche fu un attimo, il giorno stesso che decisi di sospendere farmaci e terapia. Me lo feci tatuare bello grosso sul petto e iniziai a dare soldi ai ragazzi che facevano l’elemosina davanti al supermercato, ma non i soliti spiccioli avanzati dalla spesa, davo pezzi da cinquanta o cento euro, perché un cavaliere, come diceva la pubblicità, è prima di tutto generoso. Si sparse la voce e al supermercato i ragazzi centroafricani aumentarono e si accalcavano per trovarmi un parcheggio o per prendere il mio carrello, i rom disfacevano i malocchi con gesti retroattivi e srotolavano immaginari tappeti al mio passaggio mentre spandevo a piene mani mance degne di un sultano o di un oligarca russo, finché non mi restò più niente da dare, se non la gentilezza, seconda fondamentale virtù del cavaliere, seconda punta sulla mia stella. Mia moglie mi lasciò quasi subito e la purezza, la castità, venne di conseguenza. Mi cacciò di casa e persi ogni diritto. Vivendo per strada, dormendo sulle panchine assieme agli scoiattoli, alle volpi e ai tassi parlanti del parco, iniziai piano piano a dispensare sermoni sulla nobiltà d’animo. Vestito di un pastrano logoro e barbuto ormai all’inverosimile, saltavo davanti ai passanti agitando le mani ossute e nere, ammonendoli sulle loro vite peccaminose e su un aldilà glorioso che sarebbe arrivato per tutti i meritevoli. Nella mia Camelot mentale cantavo le gesta di Sir Breunor il Nero o di Sir Galahad figlio di Lancillotto del lago o ancora di Sir Gawain che sconfisse il cavaliere verde. Col tempo il mio palato si fece muschio e le mie unghie tralci d’edera. Masticavo i denti come ciottoli prima di sputarli. Le palpebre e gli occhi secchi e polverosi mi restavano sempre orribilmente sbarrati e guardavo il cielo riuscendo ad apprezzarne la rotazione come un gigantesco orologio, né il tempo conservava ormai il suo inganno. Ricordo un balenio improvviso. Una mattina mi svegliai in un letto d’ospedale. L’infermiera disse che ero rimasto privo di sensi per due giorni prima che mi montassero sull’ambulanza. Il tumore benigno che mi era stato rimosso dalla regione frontale del cervello era grande quanto un’arancia, aggiunse quindi il dottore, e faceva pressione in alcune zone talmente importanti da sballarmi la metafisica. Se negli ultimi tempi mi ero sentito un po’ strano, continuò, era stato per quello. Nessuna depressione, nessun problema col lavoro (come poteva essere, del resto, visto che ero un rispettato professore di università? Visto che insegnare era la mia vita?) né tantomeno con mia moglie, per la quale, adesso ricordavo chiaramente, avevo una vera e propria venerazione, come si venera la sorgente sacra in quel di Holywell, là dove cadde la testa di santa Winifred di Galles. Ogni cosa era stata trasfigurata da quella massa informe e scura che galleggiava adesso nella provetta sterile dondolata dal dottore davanti ai miei occhi per facilitare il processo catartico. Quando l’infermiera e il dottore mi lasciarono infine da solo nella stanza, attaccato alla flebo salina che sgocciolava dolcemente, mi passai una mano sulla pelle di nuovo liscia delle guance e sulla testa di nuovo morbida, fatta eccezione per la spessa cicatrice all’altezza dell’attaccatura dei capelli. Nella piccola tv appesa al muro c’era la pubblicità. «Haribo è la bontà che si gusta ad ogni età» diceva lo slogan. Allora guardai fuori dalla finestra e vidi un piccione che mi fissava con l’aria spaurita di chi avesse passato incolume le linee nemiche e, solcando cieli sopra valli immense e brulle, alto su pinnacoli innevati, nell’aria fredda e sottile, fosse finalmente riuscito a portarmi un messaggio.
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