Da sotto il cappotto grigio sbucavano due gambe esili ma lunghe, simili a parentesi curve che alle ginocchia si allargavano e alle caviglie tornavano strette. Era fermo, di spalle, e ascoltava un vecchio – Sauro si chiamava, il proprietario del bar – che rispondeva alle sue domande su Larin.
“Senta, io non so niente. Aveva due sacche di tela. Non so come è arrivato qui. Ha bussato alla porta del bar, stavo chiudendo, erano le otto, minuto più minuto meno, e voleva mangiare qualcosa. Gli ho detto che non potevo dargli un pasto caldo, ma soltanto un panino con prosciutto e formaggio o dell’insalata con dei pomodori. Allora ha accettato il panino. Mi ha detto Grazie, gliene sono grato, e ha mangiato, poi ha pagato e se n’è andato”, disse Sauro.
“Sì, mi ha detto anche, Quanto le devo? Io gli ho risposto, Tre e cinquanta, e lui a quel punto mi ha detto, Prenda dieci e tenga il resto, molte persone mi avrebbero mandato al diavolo invece di darmi lo stesso qualcosa da mangiare, e poi niente, non m’ha detto altro, s’è alzato e se ne è andato”.
Sembrava scrivesse qualcosa e Sauro gli guardava nel quadernino: lo osservava tracciare delle linee, ma in realtà quello stava scarabocchiando degli accrocchi d’inchiostro, perché brancolava nel buio, sperava di tirar fuori qualche aiuto dal caso, di farsi guidare dalla mano, da qualche lampo sopito, andato perso nei gangli che magari sarebbe uscito, stuzzicato dai segni, da una corrispondenza qualunque.
Non ci saltava fuori, Aldo Larin era sparito nel nulla. Maledetta faina, pensava.
“Mi ha chiesto se volevo ballare, e io in effetti volevo ballare”, rispose Mara Elvezi. Era passato a interrogare una ragazza di trent’anni con i capelli neri che sembravano quegli accrocchi da lui disegnati sul quadernino, ma le arrivavano alla nuca e al mento, erano corti. L’avevano vista ballare con “quello lì, quello che state cercando da giorni”. “Ballava bene, poi a un certo punto hanno cambiato canzone e lui si è bloccato, ha iniziato a guardarmi i piedi, prima mi guardava fisso negli occhi”, disse.
“No, era calmo. Non era agitato per niente”, rispose alla domanda. “Ti va di fare due passi all’aria aperta? Mi domandò. A me andava, a quel punto; mi sembrava molto bello, ma so che non le interessa. Però insomma uscimmo dal Toy e lui mi disse che c’era un uomo che lo cercava e che quindi non poteva rimanere a lungo in un posto. C’è un uomo che non si fermerà finché non mi avrà stretto le ali – quelle trasparenti che poche persone riescono a vedere e che ho qui, tra le spalle –, non si fermerà finché non le avrà strette nel suo pugno, e con una forbice grossa e tagliente, dalla lama curva come le sue gambe, szac, non le avrà tagliate di netto, così disse. E io rimasi lì a guardarlo. E sento che ci riuscirà, mi disse, è scritto nelle stelle. Adesso che la vedo, penso che parlasse proprio di lei”, disse Mara.
Mi prende anche in giro, pensò. Lasciò a Mara Elvezi un suo biglietto da visita. Salì in macchina e si diresse a sud.
Aldo Larin continuava a scappare, a volare se così si può dire con una poesia un po’ spicciola, banale. E c’era chi tifava per lui, perché comunque quella poesia spicciola portava uno strano vento fresco, e a qualcuno giova il vento fresco che si infila tra i bottoni; e poi c’era chi tifava per l’altro, Falco, perché voleva vedere Aldo Larin crollare dalle sue altezze, Aldo Larin nemico della quiete, della stasi, nemico numero uno.
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