C’è una Coop alle Cure,
pensavo uscendo dal cinema, come fosse l’inizio di una poesia, anche se a pensarci meglio questa frase sembra l’incipit di un film di Verdone, ultimissimo periodo.
Le Cure, per chi non lo sa, sono un quartiere tutto raccolto dopo il cavalcavia, stanno là come a dire:
qui non succede niente, e mai niente vi accadrà.
Ci passano degli autobus, il 21, l’1A e l’1B, il fatto che ci passasse proprio l’uno faceva nella mia mente di bambino un fatto di cui vantarsi inconsciamente, era come sentirsi il popolo eletto dal Dio della Linea di trasporti cittadini.
Che città? Non importa.
Poi sempre a Le Cure c’è un torrente che fu cantato centinaia di anni fa da un poeta, di nome Giovanni. Ne scrisse una storia buffa e drammatica come faceva lui, sull’elitropia, ovvero una pietra che renderebbe invisibili, pietra che in un certo senso ha reso il quartiere de Le Cure invisibile a se stesso, o al Tempo, che poi è la stessa cosa.
C’è una Coop alle Cure, mi dicevo, ma presto non ci sarà più. La chiudono, hai saputo?
«Ma ma meno male, era un buco indegno, non ci trovavi mai nulla»: dirà il mio vecchio amico Arno, e io penserò: ti facevo più conservatore.
Mi sono preso la briga di darne la notizia a quelle persone che come me sono cresciute in quel quartiere e poi si sono mosse verso altre zone. Do loro la notizia, come quando muore un conoscente, «poi chi se ne frega, non è mica morto nessuno», mi risponde una persona che non vedevo da tempo e che fermo per strada solo per dirgli questa cosa. Tuttavia pur non andando a Le Cure da mesi, sono convinto che questa chiusura sia un fatto epocale, qualcosa di rivoluzionario, per chi vi abita o che vi ha abitato.
Anche se sospetto che la nuova Coop sarà identica alla precedente, che sarà solo apparentemente moderna, ma sarà solo un buco appena appena più grosso e con una sembianza finto-vera, non cambierà in niente di sostanziale. Che vi saranno le stesse code alle casse e gli stessi identici cassieri svogliati e autoritari, anziani e rissosi, solo con una pettorina splendente.
Le Cure ancora: il quartiere che ha dato i natali a personaggi ultra-famosi, se non mi sbaglio Margherita Hack, ma forse mi confondo, e di certo vi risiede in pianta stabile il noto direttore d’orchestra Uto Ughi, e poi… nient’altro. È un quartiere costruito negli anni trenta, di cui non c’è molto da dire.
Ci vivono dei giovani alle Cure, sì, ci sono dei ragazzi che mettono sù famiglia, come hanno fatto i miei genitori, trent’anni fa. Ci sono altri ragazzi che vivono là con le loro famiglie, che crescono e sognano di andare lontano. Ci sono, ci sono stati.
Penso a volte, come oggi, che tornerò a cena da mia madre, alle Cure dopo molto tempo che non vado e so già che troverò tutto come al solito, in questi giorni penso che l’arte si fa per fare l’amore, anzi nemmeno, che l’arte si fa per narcisismo il che è ancora peggio, e quindi bisognerebbe smettere di pubblicare racconti sulle riviste on-line, di scrivere poesie o libri e poi mandarli a giro nel mondo, ma tenerseli stretti, custoditi nei quaderni a casa di mia madre, nel quartiere Le Cure.
Ma poi mi dico anche: chi se ne frega perché si fa l’arte, e poi a un certo punto, chi se ne frega di fare l’amore, chi se ne frega della Coop delle Cure e allora rimane solo l’arte come qualcosa di minuscolo e caro che l’uomo fa non tanto perché resti nei secoli come la storia dell’elitropia, non penso a quello, ma che l’arte sia quanto di meglio l’uomo possa fare per la sua vita, che e a un certo livello ulteriore di pensiero il punto non è nemmeno fare arte, ma vivere una vita artisticamente, cioè bella, concetto questo che per me ha la forma delle Cure, di un giardino, di un pergolato, di uscire dal tempo lineare del progresso, del verso-qualcosa e inabissarmi nel tempo circolare del: verso nessuna parte.
Non sta bene, non si deve dire, non è educato, e non ha nemmeno nessun senso inserire questa riflessione qui, ma il film di J. Jarmush ha talmente tanti difetti che mi son sentito in diritto anche io, di fare come mi pareva.
Comunque chiudono davvero la Coop delle Cure. La spostano di duecento metri, tra via Caracciolo e Via Sercambi, non ho capito esattamente dove.
Mi rettificano che Hack sarebbe nata in Via delle Cento Stelle. Era una cosa troppo bella per non essere detta. (Thanks to F.L.)
“rettificare” è un verbo ambiguo su questo blog