di Rebecca Moore
Bene, l’ha lasciata. Allora lei stasera cosa fa? prende ed esce, e non vuole sentire ragioni.
Ma prima, deve risolvere una cosa. Ha questo bruciore fra le gambe. È a casa da sola. Allora va nel suo studio, dove ci sono i suoi libri e le carte di lavoro, i suoi souvenir, non accende nemmeno la luce, e si sdraia per terra; sul tappeto duro. Si sbottona di poco i jeans, chiude gli occhi, così è ancora più buio, la luce del soggiorno è lontana, lontanissima, e si infila una mano nelle mutande, si tocca, una, due, tre volte; non riesce a smettere. Perché il picco non è mai come l’inizio. Poi, a un certo punto, con freddezza, si rende conto che deve finire e come se niente fosse si alza e, senza allacciarsi i pantaloni, va in camera a prepararsi.
Per un po’ fissa l’armadio aperto. Ma non vuole perdersi a pensare che potrebbe indossare quello o quell’altro, così decide velocemente, e sceglie qualcosa che vuole vedersi addosso. Una maglietta rossa. È il colore che l’attira. Allora si spoglia, i jeans sono slacciati, e si infila la maglietta, di pizzo, sopra la testa; si rende conto che sotto deve metterci una canottiera, anch’essa rossa, altrimenti sarebbe nuda. Ci abbina dei jeans svasati anni Settanta, degli stivali di camoscio color testa di moro con la punta e il tacco squadrato. Va in bagno a truccarsi. Si fa lo chignon, per contrastare il pizzo, gli stivali, si arriccia le ciglia e si mette un velo di lucentezza sugli zigomi, sulle palpebre rosa. Poi passa al rossetto, e sceglie un rossetto vivo; anch’esso rosso. Ha un vespaio nella pancia, ma perché fare i conti con la realtà?
Torna di là e si infila il cappotto. Si chiede se ha preso tutto, controlla nella borsa. Chiavi, portafoglio, rossetto, telefono, pacchetto di fazzoletti. È scrupolosa, anche se stasera vuole fare follie. Poi si butta una sciarpa sulla spalla ed esce di casa, chiude la porta. Mentre gira la chiave nella serratura pensa che dopo, quando tornerà, quella porta non sarà più la stessa porta di ora.
Deve vedere un suo amico di scuola. Di recente hanno ripreso a frequentarsi, non sa bene perché. Forse perché non ha molto altro da fare. Si incontrano davanti a un locale, vicino al fiume, è una notte umida e vicino al fiume la nebbia si è acquattata sull’acqua. Si salutano con due baci sulle guance ed entrano subito dentro, via da quella prima notte d’inverno. Lui ha già in mano un bicchiere di birra, allora lei ordina per sé un bicchiere di vino e si siedono ad un tavolino in fondo alla sala, accanto a dei ragazzini rumorosi. Questa stanza è un po’ squallida, pensa, è contenta che ci sono i ragazzi che fanno rumore e distraggono da quella che potrebbe essere la loro conversazione. Lei è un po’ tesa, perché immagina quello che accadrà, mentre lui, nota, sembra giù di corda. Sei stanco? gli chiede. Lui annuisce, ed inizia a parlare di lavoro, lei già si annoia; allora prende due lunghi sorsi di vino. Parlano per un po’ di cose banali, di cose di tutti i giorni, e poi lei ad un certo punto si rilassa, si dimentica che si sta annoiando e le parole cominciano a uscire solo per quello che sono, parole, ed escono talmente bene, così senza pensare, che hanno qualcosa di sensuale.
Lo guarda bene, il suo amico – lo guarda come se fosse la prima volta. Ha sempre avuto una brutta pelle, un po’ gialla e a buccia d’arancia, però non è cambiato affatto dai tempi della scuola; e per questa pelle, quando erano ragazzi, sembrava più grande, ma ora le pare più giovane. È sempre stato così, se ci pensa, ma è un vecchio-bambino o un bambino-vecchio? Lui le dice che ha messo su peso, che fa boxe, le racconta delle barrette di proteine che mangia a merenda; questo a lei non interessa. Comunque, non vede nessun cambiamento. È ancora incurvato, con il collo che sporge in avanti. Nella stanza c’è un silenzio innaturale, allora lei si volta verso i ragazzi e vede che hanno tutti la testa nei telefoni. Lui le dice che deve andare in bagno, si alza, e lei rimane sola.
Si aggiusta lo chignon; tutte le parti del suo corpo tornano al loro posto. Le braccia, le spalle, le gambe. Ecco, un piede è accavallato su un ginocchio, una mano tiene il bicchiere. Questa sono io, pensa. Aspetta qualche minuto, poi si alza e lo segue nel bagno.
Lo trova che si sta lavando le mani nella piccola anticamera, è pulito almeno, pensa, e quando entra lui la vede nel riflesso dello specchio. Si gira a guardarla sorridente, un po’ stupito, per un attimo non capisce. Poi lei gli mette una mano sulla guancia e lo bacia. La lingua di lui trema, ma poi l’avvolge subito con la sua. Ha il sapore della notte, come tutti gli uomini. Opposto al lavandino c’è un altro specchio, intero, così quando lei apre gli occhi, oltre la spalla di lui vede il suo riflesso, ma vede anche la propria schiena. Rossa come una stella di Natale. Poi lui la spinge dentro uno dei cubicoli. Dentro lo spazio è misero, non c’è nemmeno una finestra, le pareti sono ricoperte di scritte volgari; qui dentro mi verrà un attacco di panico, pensa lei. Poi si toglie una gamba del pantalone, e lui glielo infila di fretta. Dura poco, ma tanto quello che lei voleva ottenere lo ha già ottenuto. Ha indosso il cappotto e la borsa le pesa sulla spalla.
Quando escono lui paga e insieme decidono di andare in un altro locale oltre il fiume. Chissà perché, ma lei sente che ora hanno molte più cose da dirsi di prima; è esaltata, mentre camminano e lui si stringe addosso una giacchetta leggera, lei parla spigliata, a pieno ritmo, quasi come se non fosse più lui; infatti, potrebbe esserci qualsiasi altra persona e lei parlerebbe allo stesso modo. S’immagina la notte. Allora attraversano il ponte nella nebbia e il freddo lei non lo sente, ha il collo scoperto e il viso lustro.
Il nuovo locale è affollato, pieno di vita, lei si fa trascinare dalla possibilità. La musica copre le loro voci, il freddo e la solitudine della nebbia sul ponte; per arrivare al bancone, la spintonano, e lei è contenta. Fanno la fila per prendere da bere e, fra i tanti visi, a un certo punto il barista la vede. La riconosce. Hanno avuto una piccola storia, una di quelle cose sordide e senza senso che non portano da nessuna parte. Però lui è nervoso. Ha un pappagallo verde, con due piume arsenico sulle ali, poggiato sulla spalla; che ripete gli ordini dei clienti quando loro si fanno avanti. Ogni tanto sbatte le ali, se il barista si muove troppo. È il pappagallo di una signora che vive sopra il locale, e che ha una collezione di animali. Una signora anziana, vestita con buon gusto, con dei bellissimi maglioni verde terra. Che è sempre lì.
Lei ordina un bloody mary, anche se non è un cocktail adatto alla sera, lo sa, ma le piace moltissimo pensare di bere un succo e ritrovarsi ubriaca. Si mette a parlare con dei visi noti e si dimentica del suo amico di scuola. Parla con un ragazzo alto, dalla pelle scura, sgraziato, che ha delle catene ai polsi; parla con un vecchio orefice, che spia le sue forme sotto il cappotto, e forse vorrebbe venderle dei gioielli; parla con la vecchia signora, accarezza il suo cane, un bassotto a pelo corto. Poi esce fuori, ha caldo.
Fa qualche passo sul marciapiede, si allontana dagli altri e si appoggia per un attimo a una saracinesca chiusa e guarda in alto, oltre le chiome di qualche albero nel parchetto di fronte, il cielo coperto. Chiude gli occhi e sente come una scatola chiudersi sopra di sé. Poi una voce la riporta fuori. È il barista. È senza pappagallo e ha in mano un altro bloody mary, che le porge in silenzio. Lei beve. Poi lui accende una sigaretta e le passa anche quella. Lei non fuma ma ha assolutamente intenzione di fumare quella lì. Poi lui la bacia, la spinge contro la saracinesca e lei sente il metallo freddo sulla schiena, più di prima, sente il rumore di cingoli e di vecchi treni. Il suono della festa è lontano. Lui le dice che stasera forse potrebbe liberarsi, o che vorrebbe ma non sa se può, per dormire insieme, insomma se ne avesse la possibilità vorrebbe dormire con lei. Lei prende una boccata di fumo e glielo soffia sul viso, s’immagina come una polvere d’ali, un incantesimo. Le viene da ridere, anzi forse ride. Poi fa cadere la sigaretta, abbandona il bicchiere e se ne va.
Si butta sulla spalla la sua sciarpa di velluto e si ripesca come il più abile dei mostri. Attraversa il ponte, torna verso la macchina.
Va in un altro locale, in un posto dove si può ascoltare della musica. Perché ha una terribile voglia di ballare. Vorrebbe sempre ballare ma non trova mai con chi farlo. Quando arriva nel parcheggio davanti al locale sente la musica con il finestrino chiuso, sente che rimbomba per la strada e rimbalza sul muro davanti, ed è contenta. Parcheggia. Fra le macchine c’è la nebbia bianca. Niente luna.
Dentro incontra subito qualcuno che conosce, ma con cui non ha voglia di parlare. Prende da bere, sale al piano di sopra nella sala da ballo. Lì non c’è luce e nessuno si parla; c’è un codice morse per poche frasi e lunghi sguardi, fra lampi colorati, a intermittenza, e l’oscurità. L’unica luce è il suono. Lei si guarda intorno, cerca qualcuno; torce il collo; a un certo punto lo vede; un ragazzo giovane, alto, forse il più giovane di tutti nella sala. Ha un viso pallido e le occhiaie, i capelli a spazzola, un viso da bravo ragazzo, da attore. Si avvicina, da dietro, tutti ballano, balla anche lei. Poi lui si gira nel buio e d’istinto le sorride. Non importa perché, sorride anche lei. Ballano insieme, senza parlare, bevono insieme, senza parlare. Lei nota che lui ha un orecchino nero, che ogni tanto cattura qualcosa e luccica. Si ritrova sotto il suo mento, lui le accarezza i capelli; se domani lo vedesse per strada, alla luce del giorno, non lo riconoscerebbe.
Quando torna a casa l’alba batte sulla porta. Lancia i vestiti a terra, in un angolo, e si lava con l’acqua fredda il viso rosso. Ripensa, solo per un attimo, al ragazzo a cui ha rubato un po’ della sua giovinezza. Poi si infila nuda nel letto, in un tepore fresco e divino, e si abbraccia da sola con le coperte. Così, quando avrà tempo di pensare al passato?
Racconto molto bello! Scrittura evocativa e ricca di dettagli sensoriali che trasportano il lettore nella storia