Dice il poeta: buttarsi in un cinema con una pietra al collo. L’ho fatto un giorno di novembre. Il film era “Notes on the other”, di Sergio Oksman, per l’adorabile e sempre lieto Festival dei Popoli. Ho attraversato lo spazio bar e i tornelli e mi sono seduto a tre file dall’ultima. Solo, sono affondato nell’atmosfera del cinema di pomeriggio come una cialda nella panna montata. Il film sarebbe dovuto cominciare subito dopo la breve presentazione che il regista aveva fatto in spagnolo, tradotto dall’interprete. E invece è lì che sono iniziati i problemi tecnici.
Prima l’audio. Un fiume di tori e di uomini per una calle di Pamplona ha continuato a scorrere muto, prima che da dietro decidessero di stoppare. Il secondo tentativo non è andato meglio. Questa volta abbiamo fatto in tempo a vedere un gruppo di afasici e sorridenti sosia di Ernest Hemingway. Poi una ragazza si è premurata di avvertire: ci sono problemi tecnici, ci scusiamo per il disagio, faremo il possibile nel tempo che serve.
Al terzo tentativo, dopo alcuni minuti, l’audio e le immagini sono partite che sembrava un miracolo; i sottotitoli però non erano sincronizzati. Allora mi sono girato – più per sport che per un reale bisogno di indirizzare il mio astio – e ho visto la faccia dell’addetto ai sottotitoli galleggiare nell’oscurità della sala, illuminata di blu dallo schermo del computer. Lo sfiorava l’idea di farsi prendere dal panico. Nessuno, in realtà, aveva accennato il minimo lamento. Tutti guardavano lo schermo nero e auscultavano il ronzio della casse. Ho pensato ad Alfieri che si legava alla sedia per impedire al corpo di distogliere la mente dalla lettura.
L’addetto ai sottotitoli, laggiù, solitario come l’arpista nella sua orchestra.
Sergio Oksman ha fatto una battuta sul fatto che poco prima aveva chiamato il film “un tentativo maldestro e mai finito”, e così questa poteva e doveva essere la sua vendetta. I film sono cose vive, diceva. Sono seguite brevi risate che il cotone della sala ha presto riassorbito. Ci siamo rimessi a fissare lo schermo.
Non era Carmelo Bene che celebrava i problemi tecnici? La pellicola che si squaglia, la pizza difettosa, il proiettore che salta…
Intanto che aspettavamo si levava in me una sensazione rigenerante, l’idea che il film potesse non iniziare mai. Le prime imprecazioni in sala comando. Cosa succederebbe se ad ogni problema tecnico ne seguisse naturalmente un altro? E se questo fosse il Limbo?
[seguono tre finali alternativi: scegli quello che preferisci in base a come ti senti]
Finale n°1: Cauto ottimista
Eppure, per quanto incalzante sia la musica di sottofondo, i concorrenti di Masterchef riescono sempre a impiattare in tempo. Per quanto al mattino possiamo maledire la sveglia riusciremo ancora ad arrivare puntuali a lavoro. Certo sarebbe bello (sarebbe strano) che il conte Alfieri un bel giorno si slegasse dalla sedia; e invece imparerà tutto – l’addetto ai sottotitoli sa che non si farà mai prendere dal panico sul serio, sistemerà le cose, il film comincerà, l’arpista farà il suo accordo come da spartito e il sole sorgerà ancora.
Finale n°2: Pessimista tout court
Il film ha avuto poi un inizio e una fine.
Hemingway, quello vero, seduto in veranda, aspetta tutta la notte sicuro che il sole – come recitava il sottotitolo del suo primo romanzo – sorgerà ancora. Un attimo prima che la cosa si avveri si spara in bocca. L’ultimo trofeo di un cacciatore è la sua stessa testa.
Finale n°3: Aperto
Ci sono problemi tecnici, ci scusiamo per il disagio, faremo il possibile nel tempo che serve.
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