Il tramonto migliore di Monterrey cola dalla Sierra Madre sul petto dei cholos armati della colonia Independencia; seduti agli angoli delle case di calcestruzzo frantumato, osservano la città che si adombra, onorano polvere e terra che si arrossano tra i loro piedi: la resistenza della poesia allo squallore incipiente nella tragedia del Nuevo León.
In calle Porfirio Diaz, ogni domenica sera combattono i galli.
I galli da combattimento di Monterrey si beccano e tagliano fino a morire nella veranda di Augustino di Secundino Colmenero, gallero cantato molti anni addietro. La veranda, chiamata da tutti Gallera de La Risca, si affaccia sul graffito della Vergine Maria e di Giuseppe e del Bambino Gesù dipinto sul muro verde scrostato della cappella di San José.
I gallos de pelea a Monterrey vengono preparati per mesi al combattimento e sono nipoti di figli di Giro, incroci di incroci sanguinosi, nutriti con poco mais, cereali e una salsa di aglio e limone: una dieta tremenda. Dalle gabbie vengono presi in braccio, adagiati sulla bilancia e pesati, ripresi in braccio e infine lasciati in mezzo alla sabbia della Gallera de La Risca. Tra le loro zampe luccicano le lame, e gli schizzi di sangue arrivano fino sulle camicie dei galleros che gridano e bevono birra.
Alla Gallera de La Risca c’è un gallo che ha vinto dieci peleas, un gallo piuttosto famoso che attacca poco, ma schiva molto, che si muove leggero e poi apre severamente e con grande precisione il dorso e la testa di ogni avversario che gli si gonfia di fronte; prima di farlo gli danza attorno per un paio di minuti almeno. Una volta apertone il capo, vi guarda dentro per non lasciare che i ricordi del morto vadano perduti nell’aria maleodorante di sigaro e sudore: il colore giallognolo della terra del pollaio circondato dai palissandri in cui è stato addestrato; il tintinnio del lucchetto della gabbia durante il tragitto fino alla Gallera de La Risca; poi poco altro: le mani calde del gallero ubriaco che lo liscia prima di lanciarlo nel palenque; infine il sibilo della lama attraverso le piume.
Questo gallo viene portato a combattere ogni domenica da Juan Bonilla, un cholombiano con le orecchie sempre piene di cumbia rebajada, con i capelli lunghi che gli scendono sulle guance come bargigli e la nuca rasata.
Juan Bonilla vive con il padre a poche decine di metri dalla Gallera de La Risca, nel tratto più ripido di calle Porfirio Diaz.
«Juan», dice sempre suo padre, «Juan, sta’ attento che rimanga immobile quando sta sulla bilancia, non voglio che combatta con galli più grossi».
Poi c’è il combattimento. Seduto in un angolo dell’arena, Juan Bonilla osserva in silenzio, sperando che quel suo gallo non smetta mai di danzare in cerchio nella Gallera de La Risca.
«Non lo togliere subito di lì. Quello che farà dopo aver ucciso è più importante di quello che avrà fatto prima. Lascia che gli diano un soprannome, che ne parlino alla Risca», gli aveva detto suo padre.
Al termine di ogni pelea, Juan Bonilla fa sempre la stessa cosa: lascia il gallo fermo a osservare le spoglie dell’avversario, mentre i presenti smettono di gridare, bisbigliano che il Santo Kolombia ha vinto un’altra volta e ora sta pregando.
Allora il giovane prende in braccio il Santo Kolombia, lo allontana dall’arena, gli toglie le lame da entrambe le zampe, ritira la sua quota della vincita e attraversa calle Porfirio Diaz e la sale ancora qualche metro, fino al divano dove suo padre sta sdraiato a osservare il soffitto da due anni, poi prepara due porzioni di patate, sugo piccante e pollo secondo la ricetta di sua madre. Ma soltanto la domenica della pelea, quando si festeggia la vittoria.
Spesso si siede di fronte alla gabbia del Santo Kolombia e lo osserva. È già buio quando si siede sulla sedia di plastica senza schienale; la notte rimbalza sulla linea dei grattacieli del centro di Monterrey che la ricacciano sul Cerro de la Loma Larga e tra i muri scalcinati de la Independencia. Si sentono in lontananza i colpi di un Avtomat Kalašnikova, ma il Santo Kolombia resta immobile con gli occhi spalancati nella sua gabbia. Allora il ragazzo ripensa alla mattina in cui sua madre tornò a casa, salendo la strada con il gallo in una gabbia, e le buste della spesa. Le era parso troppo bello per fargli tirare il collo e poi buttarlo in mezzo alle patate.
La domenica sera in cui il Fuego appoggiò la lama del coltello alla gola di Juan Bonilla, il Santo Kolombia aveva vinto il combattimento. Nonostante fosse il gallo favorito, il Fuego aveva scommesso sull’altro, e non aveva scommesso poco.
Quando l’incontro si concluse e Juan non ritirò il Santo Kolombia dal palenque, il Fuego sibilò a denti stretti una domanda ad Augustino Colmenero che gli era accanto: «perché quel figlio di puttana non va a riprendersi il suo gallo da lì dentro?», gli domandò.
«Non saprei, è così che fa ogni volta il Santo Kolombia».
«Allora è arrivato il momento che il Santo diventi un martire», rispose il Fuego e si avvicinò al ragazzo con un sorriso e la mano sinistra tesa in avanti, come se volesse fargli i complimenti.
Poi estrasse dal fodero un coltello che aveva più l’aspetto di una falce e, vista da quella distanza – una distanza che Juan Bonilla non aveva ancora sperimentato con una ragazza –, la lama gli parve infinita.
Prima ancora che il Fuego cominciasse a dirgli quelle poche parole che aveva da dirgli, Juan Bonilla seppe che quello sarebbe stato l’ultimo combattimento del Santo Kolombia.
Quella sera gli tolse le lame dalle zampe, tornò a casa, preparò la cena per suo padre, prese la gabbia con il gallo all’interno e uscì di casa salendo verso la Loma Larga. Nelle cuffie ascoltava la Cumbia Campesina di Tropa Vallenata e cercava di non guardare il gallo che cercava di non scivolare sul piano in legno della gabbia.
Aprì la gabbia, prese in braccio il Santo Kolombia e lo strinse forte a sé, poi lo posò in terra e, con la lama che era solito legargli alla zampa destra, lo uccise.
Rimase immobile a guardare le piume insanguinate del Santo Kolombia nella terra del Cerro de la Loma Larga, e ne vide i ricordi: le grida esagerate nella Gallera de La Risca e il luccichio delle lame degli altri galli, i chicchi di mais e il sapore dell’aglio, la cumbia dalle cuffie di Juan, le mani di sua madre che lo prendono dal mercato e i suoi occhi che gli sorridono. La lama che gli scivola lungo il collo. L’odore della notte nella colonia Independencia.
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