«Lasciatelo dire: hai dei problemi» disse T. poggiando la mano sulla spalla di C.
«Non hai diritto di giudicare la mia vita privata» rispose C.
«Lo faccio perché mi preoccupo della tua salute».
«Non c’è più nulla di cui preoccuparsi».
C. era uno scrittore. Dopo la pubblicazione del primo libro era caduto in una profonda crisi creativa e sentimentale, di cui T. si era fatto spalla e confidente in nome dell’amicizia che li legava.
C. aveva superato la crisi il giorno in cui aveva visto una ragazza indossare un gilet di pelliccia sintetica leopardata. Il gusto trash che trasudava da ogni singolo pelo del capo veniva compensato dalla capacità di chi lo portava di renderlo espressione di un carattere eccentrico e deciso, sebbene si trattasse di una persona pudica e schiva.
Quel giorno, non avendo potuto fotografare quell’abbagliante gioco di contrasti, lo aveva descritto, ritrovando la sicurezza smarrita.
«Che fine ha fatto Anna?» chiese T.
«Non ha funzionato» rispose C.
«Questo lo so. Volevo sapere perché non me l’hai mai presentata».
«Non c’è stata occasione, è durata poco».
«Come con Daria».
«Daria chi?».
«La ragazza che “camuffava la sua insicurezza dietro un appariscente guardaroba”».
«Ah, lei. Bè, era vero».
«Non lo metto in dubbio. In ogni caso complimenti, mi sembra che tu ti sia ripreso alla grande».
«È solo un periodo…».
«Un periodo fecondo, direi. L’ultima come si chiamava?»
***
Sara era una ragazza semplice: corpo esile, poco trucco, capelli chiusi in uno chignon e qualche lentiggine sul viso; e abitudinaria: stessa biblioteca, stesso banco, stesso orario.
«Leggi?» le chiesi il giorno che riuscii a trovare un posto vicino a lei.
«Sei sagace» mi rispose.
«Ahahah, già…».
«Mi chiamo Sara, se è questo che vuoi sapere» mi disse, senza staccare gli occhi dal libro.
«C.» risposi porgendole la mano. Non ricambiò.
«Tu che fai, C., studi o ci provi con le ragazze?»
«Entrambe le cose, ma in nessuna ho successo».
«Almeno hai il senso dell’umorismo».
«Mi trovi simpatico?»
«È la prima volta che ti sento parlare, per ora ti trovo».
«In che senso?»
«Nel senso che ti trovo sempre qui, ogni giorno a un tavolo più vicino al mio».
«Allora non sono il solo».
«A cosa?»
«A fare altro, oltre che studiare. Mi tenevi d’occhio?»
«Non più di quanto tu tenevi d’occhio me.»
«Perché non prendiamo un caffè?».
«Magari un’altra volta».
Con quelle parole chiuse il libro, si alzò, infilò la giacca e lasciò la biblioteca, lasciandomi di stucco.
Fissai la sedia vuota e calda e profumata di lei, prima di andare a prendere il caffè.
***
Da giorno del gilet leopardato, T. era venuto a conoscenza di tutti i dettagli dei rapporti sentimentali di C., che venivano trasformati in brevi racconti in grado di tratteggiare le varie sfumature delle relazioni umane. Tuttavia, l’iniziale ottimismo e felicità di T. per la ritrovata sanità mentale e creativa dell’amico, si era via via fatta oscurare da un ostinato sospetto, dato che non aveva mai conosciuto nessuna delle ragazze con cui l’amico si accompagnava. Passare dall’essere un misantropo all’essere uno sciupafemmine non è impresa impossibile, ma certo non dall’oggi al domani.
«Non vedo quale sia il problema, non posso scrivere di ciò che vivo?» chiese C.
«Puoi scrivere ciò che vuoi, mi preoccupa quando è ciò che scrivi a essere la tua vita» rispose T.
«Non ti seguo» disse C.
«Non fare lo stupido. Le tue relazioni: Anna, Daria, Sara, la tipa con gli occhiali dalla montatura spessa, o la sosia di Valentina Nappi» disse T. accompagnando la conta delle ragazze con le dita, «non esistono!».
«Stai dicendo che mi sono inventato tutto?» chiese C.
«No, sto dicendo che sono le relazioni che hai avuto con loro ad essere… finte!»
C. stava per ribattere, quando una ragazza si fermò davanti a loro e prese posto al tavolo in cui sedevano.
«È grazie a lei che l’ho capito» disse T. salutando l’amica.
«Ci siamo già conosciuti?» le domandò C., richiamando alla mente il volto familiare della ragazza.
«Sì» rispose lei, «qualche giorno fa, in biblioteca. Fissavi i distributori automatici. Ti chiesi se stavi bene e iniziasti a raccontarmi di una ragazza appena conosciuta».
«Sara!»
«Si chiama Fabiana in realtà, è una mia collega dell’università. Me l’hai descritta così bene che ho subito capito che parlavi di lei, così quando l’ho vista le ho parlato e…».
«E cosa?»
«Ha detto che non ha idea di chi tu sia, che non ha parlato con nessuno in biblioteca».
«Che stronza!»
«No!» intervenne T, «sei tu lo stronzo. Capisci?».
«La storia era così buffa e inquietante che l’altro giorno l’ho raccontata a T., scoprendo che eravate amici peraltro» concluse Claudia.
«E da lì una prova che i miei sospetti erano fondati» disse T. «Ho girato nei posti in cui mi hai detto di aver conosciuto queste ragazze, e alcune le ho incontrate. E ci ho parlato. E hanno raccontato la stessa versione di Fabiana: nessuna ti conosceva e nessuna aveva mai parlato con te!»
«Non vedo quale sia il problema» disse C. dopo una breve pausa riflessiva in cui sembrava aver colto l’accusa che gli veniva mossa.
T. rinunciò a spiegare oltre. Si alzò e posò ancora una volta la mano sulla spalla dell’amico, che sembrava sì confuso, risentito pure per le accuse mosse, ma per nulla preoccupato dei comportamenti tenuti.
Appena T. e l’amica lasciarono la caffetteria, entrò una minuta biondina dalla falcata sicura e audace.
C. la osservò sfilare con grazia tra i tavolini e prender posto di fianco a lui.
Aprì il computer e iniziò a scrivere.
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