«Che titolo gli avete dato?»
«Nessuno».
«Oh, io ne ho uno!» esclamai. Ma Douglas, senza badare a me, aveva cominciato a leggere con voce limpida e netta: quasi la versione sonora della bella grafia dell’autrice.
James, Il giro di vite
Forse da un po’ di tempo la sua vita era meno interessante, o forse aveva soltanto smesso di cercare spunti narrativi nelle cose che gli succedevano.
Ma quella sera era stato diverso.
Di certo non era dipeso dai commensali della cena: una scrittrice sotto il riflettore, altri due potenzialmente di successo, di fatto con un pugno di mosche in mano (meglio così) e due artisti, una coppia, fotografi, che alleggerivano tutta la faccenda. Oltre, naturalmente, a lui.
Così la serata era passata. Con una certa grazia, con molto vino, e poi ancora amari e poi un’ultima bevuta e tutti a dormire, ché il giorno dopo la scrittrice sotto il riflettore e la sua pareja sarebbero ripartiti verso città più rilevanti di quella. Ma lui pensava, se pensava, che in fondo era stata una bella serata, una cena che qualche anno prima avrebbe adorato, ma di cui ora non sapeva che farsene. Che tutto era già accaduto, fotocopia di fotocopie, pensava, ma anche quell’immagine era esausta. Però qualcosa era successo. Non durante la cena, o meglio: molte cose erano successe: si erano messe le basi di un’amicizia che, lui lo capiva, sarebbe potuta durare potenzialmente molti anni, quando quel momento di così miseri successi e riconoscimenti per loro (fatta esclusione per la scrittrice sotto i riflettori, che dava però l’impressione di neanche volerci stare e se interrogata sul futuro, sembrava alludere a qualcosa di ancora diverso), quel momento sarebbe comunque passato: era tutta gente abbastanza giovane e ambiziosa, anzi neanche più tanto giovane, ex giovani di belle speranze, ma forse era ancora possibile che le cose in futuro sarebbero girate e avrebbero ottenuto un po’ di quel riconoscimento che desideravano (e probabilmente non sarebbero stati felici neanche allora, ma quello era un altro discorso) e in ogni caso, sarebbero invecchiati. Lui, se pensava a queste cose, ci pensava di sfuggita, non tanto per quel sentimento di già visto, o di già scritto, quanto perché, nelle due ore precedenti alla cena, era successo qualcosa, mentre aspettava che fosse l’ora di raggiungere scrittori e artisti, e da solo, in un bar, aspettava bevendo vino e lasciando passare il tempo. Era stato un uomo, o forse più esatto dire un ragazzo, che gli si era avvicinato, aveva iniziato a parlargli e non lo mollava più, ma era tutto ok, era solo un altro come lui, uno da solo in un bar che aspettava fosse l’ora di andare da qualche parte. Come lui o forse qualcosa in più. Qualcuno che più di lui aspettava e più di lui beveva e più di lui aspettava, ma senza una chiara idea di cosa o chi nè di cosa avrebbe fatto dopo, quindi tecnicamente no, non aspettava proprio nulla. In questo sentimento di attesa-non-attesa, lo aveva sentito affine, quasi fratello. La proprietaria del bar era passata come a sincerarsi che il ragazzo non desse troppo fastidio, alludendo così a un retroterra: un cliente scomodo, che si attaccava ai clienti, che non li mollava, e così la giovane proprietaria, perfetta padrona di casa, era passata a controllare che fosse tutto nei limiti. Lui aveva capito tutto con un solo sguardo e con uno sguardo risposto alla giovane donna: “sì, è tutto ok”.
Poi il tizio, Lapo si chiamava, aveva raccontato qualcosa della sua vita, di una specie di punto morto in cui si trovava – senza un lavoro, senza una relazione – ma che no, non era tanto la questione economica che gli dava pensiero, dei soldi da parte li aveva, una liquidazione, una casa di proprietà, una famiglia pronta ad aiutare, quanto piuttosto il macrotema: che fare? Come uscire da quel gorgo? E poi domande. Quante domande gli aveva fatto. Cosa fai dopo? Una cena. Con chi? Con degli scrittori. Scrittori? Strano, io non ne conosco nessuno. E aveva continuato. Si era messo a raccontare che aveva un’idea, sì, l’idea di un romanzo, ma prima ancora, un titolo perfetto per un romanzo, romanzo che se ne rendeva conto forse non avrebbe scritto mai, ma quel titolo, quel titolo: solo a ripensarci gli si illuminavano gli occhi. Un naso sottile, capelli vagamente incollati alla fronte, e quello sguardo fisso che solo a ripensare a quel titolo si animava. Lo aveva scritto su di un foglio, aveva detto Lapo, e l’aveva nascosto. Lo aveva nascosto bene. Dopo questa frase, nel rumore del bar pieno di gente, c’era stato un momento, falso, di silenzio, come se lui e gli altri avventori si aspettassero che fosse l’altro a dover parlare, a rivolgere una domanda a Lapo. E così lui, pur non avendone voglia, aveva fatto la domanda. E dove lo hai nascosto, quel foglio? Ma non era quella la domanda che Lapo si aspettava, quanto che gli venisse chiesto finalmente quale fosse il titolo. Non sono sicuro di volerlo sapere, no, se hai scelto di nasconderlo, meglio che tu non me lo dica, aveva aggiunto, seppur animandosi a sua volta, dopo mesi che gli sembrava la vita offrisse così pochi spunti letterari (ma era vero? O era lui che non li voleva vedere?). Dimmi piuttosto dove lo hai nascosto. No, Lapo non aveva risposto alla domanda su dove avesse nascosto quel foglio. Purtroppo. Aveva invece spifferato tutto il resto.
Come lui aveva spifferato tutto nei suoi romanzi.
Il titolo, che secondo Lapo era perfetto, e no, in realtà non lo era; la presunta trama di quel romanzo che mai sarebbe stato scritto, anche quella una trama inconsistente, una trama non buona in assoluto.
E il momento era passato, parlando di altre cose, salutando Moritz Basilico (nessuno avrebbe mai creduto a un personaggio con un nome simile, pensò) Moritz Basilico che intanto era arrivato per bere qualcosa e aveva attaccato a parlare di un falegname, e di altre piccole cose senza importanza.
Il momento era passato. Uscendo dal bar, quando era l’ora di andare a cena, lui aveva camminato verso il ristorante Da Carmine, pensando ancora a quel foglio scritto a penna da Lapo, a quel foglio nascosto da qualche parte. Non a quel titolo specifico, ma a cosa fosse quel foglio di carta e quel titolo prima che il titolo venisse rivelato, perché, in un modo al contempo oscuro e luminoso, quel foglio diceva tutto di lui, di loro.
E aveva pensato che quella era una storia buona, forse addirittura molto buona, una storia che forse avrebbe avuto voglia di scrivere.
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