Ci sono stati tempi più felici. Mi ricordo che prima di scendere in trincea, passavo le estati dell’infanzia insieme a quegli amici che crescendo perdi un po’ di vista. Mangiavamo gelati in una piazza di fronte al bar, spensierati, e aspettavamo che, come ogni sera, arrivassero.
Le sentivamo da lontano. Un suono aspirato e corposo, pieno e aggressivo, che cresceva di stridente intensità, sino alla sfiatata, accompagnata da una scoppiettante scalata che ci ricordava i botti di Capodanno o le guerre viste in tv.
Quando arrivavano, sfilavano una dopo l’altra sotto i nostri e occhi, e sotto quelli dei vecchi poco più in là, rosi d’invida per non essere più giovani e capaci di mordere la vita lungo l’asfalto.
All’epoca ci sembravano mezzi spaziali, roba da cartoni animati futuristici. Erano di tutti i colori. Italiane e giapponesi. Quasi tutte in veste sportiva. Aspettavamo che le lasciassero in fila una di fianco all’altra, come cavalli davanti al saloon e poi, fulminei, sguisciavamo tra gli scarichi roventi e i copertoni consumati.
Facevamo il gioco del «mia per sempre»: il primo che lo diceva indicando il mezzo, se lo aggiudicava. Il mio garage immaginario non aveva più posto ormai.
Dentro me vivevo quei momenti con una gran voglia di crescere e di acquistare ciò che per noi non rappresentava la libertà e l’indipendenza e il cuore e tutte quelle insulsaggini lì che a quell’età non capivamo, ma rappresentava la figaggine più assoluta: quella di sentirsi per un momento la cosa più vicina agli eroi dei nostri fumetti e videogame preferiti.
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Questo avveniva più di quindici anni fa. Oggi ho il doppio degli anni, e il mio garage è vuoto, anzi, non ce l’ho nemmeno un garage. È rimasto solo il sogno, ma tra quello e la sua realizzazione, c’è di mezzo un mare che negli ultimi vent’anni ha mutato forma, colore e sostanza. Un elemento instabile e sfuggente come l’antimateria: il lavoro.
Poco tempo fa sono stato a una “fiera del lavoro”, anche se gli organizzatori preferivano chiamarlo “mercato del lavoro”, perché funzionava proprio come un mercato: c’era una grande piazza, ricavata all’interno di un anfiteatro che di solito ospita concerti e spettacoli, in cui domanda e offerta si incontravano.
C’erano tanti banchetti, esattamente come al mercato. C’era caciara e confusione, esattamente come al mercato, e la gente si metteva in fila in attesa del proprio turno, questo non proprio come al mercato. Ogni banchetto offriva la sua merce, anche se tendeva un po’ a ripetersi: posti da cameriere, chef, tuttofare, facchini, receptionist, guide turistiche e via dicendo. Era un mercato dedicato al lavoro turistico, con tanto di aree tematiche: blu ristorazione, verde alberghiero, rosa viaggi e turismo, ecc., ma l’offerta non variava. Il mercato quello offriva e la domanda, col suo capitale umano condensato in due o tre pagine, sperava di portare a casa il risultato.
Mi sono seduto al banchetto di un nota azienda locale, che ha fatto dello street food e italian style il suo core business. Punto su due posizioni: addetto junior alla selezione del personale e cameriere di sala. Mi sembrano oneste. Una affine ai miei studi, l’altra ad affiancare le passioni. Ma non vado bene.
La reclutatrice, dopo un volo d’aquila sul mio curriculum, mi dice che l’addetto alle selezione del personale è un posto per uno stagista con meno di trent’anni, una laurea a pieni voti in giurisprudenza o economia, uno stage universitario in posizioni affini alle spalle e la conoscenza degli applicativi gestionali utili per svolgere le mansioni. Non fiato per qualche secondo. Nella mia mente si accavallano risposte di tutti i tipi. Dico che è la prima volta che sento dire che per fare uno stage bisogna aver prima fatto un altro stage. Lei sorvola, forse non mi ascolta, forse non coglie l’ironia o forse la mia voce bassa si è persa nella confusione ma già mi sta dicendo che non assumono nessun cameriere, fanno solo contratti a chiamata quindi quel “cercasi: 4 cameriere sala” non è propriamente realista, ma puramente indicativo. Dipende dalle esigenze. Mi alzo attonito. La fila dietro me si è fatta lunghissima.
Raggiungo l’amica con cui sono andato, che nel frattempo ha fatto anche lei un paio di colloqui rivelatesi essere poi per dei posti da tirocinante o stagista.
Mi guardo intorno. Le offerte di lavoro abbondando sui fogli A4 stampati all’ultimo minuto. A leggerli, sembra che a Firenze stiano per arruolare un esercito di camerieri, maître, chef, piazzaioli e lavapiatti con una buona conoscenza dell’inglese. Le uniche offerte dove non è richiesta, la buona conoscenza della lingua inglese, sono le offerte di lavoro per cameriera ai piani: qui è richiesta un’ottima conoscenza della lingua italiana.
Una ragazza si avvicina e ci chiede se abbiamo stampato i curriculum per venire lì, perché lei non l’ha fatto, non sapeva fosse necessario, e davanti a quel buffet lavorativo ha lo sguardo di un alcolista in terapia davanti a un open bar. La tranquillizziamo e riprendiamo il giro tra le aree colorate: troviamo un banchetto che offre soggiorni lavorativi in Europa: ti pagano il viaggio, il corso di lingua e ti aiutano a trovar casa. Non c’è un limite di età, solo una piccola e trascurabile clausola: non devi mai aver lavorato in vita tua. E se a trent’anni non l’hai fatto non vedo il motivo di iniziare proprio ora.
Intanto in un banchetto due reclutatori fanno i piacioni con una ragazza che non so per quale posizione si candidi. In un altro si sta svolgendo una prova d’inglese e diventa difficile capire chi sta selezionando e chi si sta candidando. Ci sono tanti capannelli di persone che sembrano scambiarsi dritte e consigli, o forse cercano di sentirsi meno soli in mare aperto.
Arriviamo alle sedici, orario di chiusura. La gente gira con la stessa foga con cui entra al supermercato poco prima della chiusura. Osserva i banchetti con sguardo famelico, spintona chi tentenna troppo e spunta nervosamente sulla mappa i banchetti fatti e quelli che mancano.
Gli zaini sulle spalle sono ora alleggeriti dalle risme di curriculum depositate in babeliche pile sui tavoli dei reclutatori, ma la sempre più concreta sensazione di aver passato la giornata facendo quello che si fa tutti i giorni al pc, cioè inviare curriculum a cazzo, appesantisce lo sguardo e la morale dei partecipanti. È la materializzazione delle nostre paure, del resto. Di ciò che vediamo durante le giornate in pigiama, coi capelli e la barba sfatta, la cispa sugli occhi, la tazza di te in una mano e la sigaretta nell’altra e le infinite pagine di annunci di lavoro. Solo che ora è tutto reale. Concreto. C’è una gigantesca rete a strascico che ci ha raccolto dal fondo delle nostre mura domestiche e ci ha messo spalla a spalla qui.
Ci tocchiamo con mano, ci annusiamo, ci guardiamo negli occhi e alla fine tutti pensiamo che forse sarebbe stato meglio spendere quel tempo a far visita alla nonna, che ha 89 anni e ogni mese che passa ti dice che non sa se vedrà il prossimo e anche se è dai settanta che va avanti così, sai che lei, prima di chiudere gli occhi, vorrebbe solo vedere i nipoti un ultima volta, chiederti se qualcuno il lavoro te l’ha finalmente promesso, come si faceva ai suoi tempi, se l’innamorata c’è sempre e quando la porti a fargliela salutare, e alla fine ti allunga cinquanta euro con la stessa scaltrezza di un pusher, «per comprarti una pizza e il gelato» dice, perché per lei sei sempre quel bambino che d’estate passava le sere a guardare le moto davanti al bar, nella speranza un giorno di riuscire a comprarne una.
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