Dopo la Brexit, pare che la Gran Bretagna sia diventata un paese a minoranza cattolica. In giro ci sono più atei dichiarati che credenti. È una notizia interessante. Mi sono chiesto con quale tatto abbiano fatto un sondaggio del genere. Immagino non l’abbiano chiesto la domenica davanti a una chiesa. Forse per telefono. Una mattina di una giornata infrasettimanale qualsiasi, tipo il mercoledì alle 11: ti chiamano e pensi ti vogliano vendere un distillatore per l’acqua del rubinetto, invece ti inchiodano all’angolo con una domanda esistenziale.
Se chiedessero a me, non so se avrei il coraggio di dichiararmi ateo, anzi, non so se avrei il coraggio di dichiararmi non credente. Più che una questione di fede, è una questione di superstizione, come a dire: è più facile credere al diavolo che credere a dio.
È difficile concepire gli eventi come solo frutto del caso, sebbene sia consapevole che questo significa prendersi una forma di assicurazione sulle proprie scelte.
Aveva detto proprio così, assicurazione, quel ragazzo tedesco con cui ne discutevo una volta nella lavanderia di un campus universitario vicino Parigi, mentre si attaccava un carico di bianchi e colorati insieme, senza usare l’acchiappa-colore.
Con noi c’era anche un inglese, ma non diceva nulla, non gli interessava l’argomento forse. Chissà se quando l’hanno chiamato per il sondaggio ha ripensato a quella serata, se il ricordo della conversazione che ha snobbato, l’ha in qualche modo influenzato nel rispondere. Con tutta probabilità ci ha dimenticato, ed è meglio così, altrimenti questa storia sarebbe potuta iniziare col classico “c’erano un italiano, un tedesco e un inglese”, oppure “c’erano un credente, un ateo e un menefreghista”, solo che poi non si sarebbe riso perché questa non è una barzelletta.
Ad ogni modo, se quella stessa sera mi fossi degnato di rispondere, qualche minuto prima, alla chiamata di mia madre, forse avrei salvato quella maglietta a cui tenevo da un lavaggio sconsiderato. E avrei pure avuto delle argomentazioni più solide a favore delle coincidenze e del caso e del destino. Invece mi sono rassegnato all’idea che assicurarsi una redenzione, anziché prendersi la responsabilità delle proprie azioni, è effettivamente un gesto paraculo, che oggi ti salva una maglietta, domani chi lo sa, forse il lavoro, o persino la patria.
La verità dunque, mio caro sondaggista – così potrei rispondere a chi mi chiama per chiedermi se sono ateo o credente – è che ci hanno fatto crescere col mito di essere unici, speciali, irripetibili, destinati a qualcosa di grande, anche se l’esistenza ci ribadisce ogni giorno che in caso di apocalisse zombie, è più probabile fare parte della massa che perisce piuttosto che dei sopravvissuti che ripopolano il mondo. Credere in qualcosa non è più solo questione di fede, è sopravvivenza alla frammentata schizofrenia dei nostri tempi.
Sono certo che converrebbe con me.
Anche lui farebbe fatica a definirsi ateo, o quantomeno non credente. Perché vorrebbe dire farsi carico, con una solo risposta, di tutte quelle scelte che l’hanno portato a parlare al telefono con me, alle 11 di mattina di un mercoledì qualsiasi, dopo essersi fatto, per anni, un mazzo tanto alla facoltà di statistica, sognando una carriera da luminare che scrive interessanti opinioni geopolitiche su Limes.
Dunque la Gran Bretagna, si diceva.
Negli ultimi anni pare sia diventato un paese a maggioranza atea. Cioè, in giro ci sono più atei dichiarati che credenti dichiarati. È una notizia interessante, ma sono certo che tra qualche altro anno, quando gli effetti della brexit avranno lasciato una cicatrice sulla loro coscienza collettiva, il paese si riscoprirà nuovamente in maggioranza credente.
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