Erano quei giorni di novembre in cui il vento accatasta le foglie secche contro i muri e quel periodo della vita in cui dare un calcio ai mucchi di foglie secche non è ancora ridicolo e non è più così spensierato.
Spero di non peccare di retorica quando dico che capisco l’apprensione degli adulti riguardo un figlio adolescente. È un momento della vita, per l’appunto, in cui c’è davvero il rischio di imparare qualcosa.
A sedici anni, se hai la fortuna di beccare il professore giusto, la ragazza giusta e magari un bastardo di amico come si deve, finisce che una sera ti ritrovi a casa da solo con una voragine dentro che non sai bene cos’è – non sai, cioè, cosa c’era prima che si aprisse; guardi il cielo e per la prima volta vedi le stelle, e ti sembra di poterle contare; ascolti l’affievolirsi del traffico in lontananza e i passi delle persone che rientrano a casa; ti sembra, anche se non può essere, di sentire i loro pensieri, proprio identici ai tuoi.
Allora lo scorgi, è lontano anni luce e a portata di mano: quel punto verso cui tutto converge, il respiro in coro delle cose, il tempo fuori dai cardini e il tuo io sparigliato.
È possibile che in quel momento ti scenda una lacrima, la prima non tua.
È possibile, perché la fortuna ha un limite, che la connessione internet faccia cilecca, e non puoi farti quella sega che ti eri pregustato quando i tuoi sono usciti dicendo che non sarebbero tornati per cena.
Allora, già che ci sei, apri un file sul computer e ti viene l’idea di scrivere.
Non sai perché, lo fai e basta. Anzi, sei abbastanza sicuro che alla fine sarai lo stesso stronzo di prima.
Lo stesso, sputato.
Solo un po’ diverso.
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Erano quei giorni di novembre in cui il vento accatasta le foglie contro i muri e quel periodo della vita in cui dare un calcio ai mucchi di foglie è palesemente ridicolo.
Spero di non peccare di retorica. È un momento della vita, per l’appunto, in cui si può davvero rischiare qualcosa.
A sedici anni, se compri della droga, ci sta che una sera ti ritrovi a casa da solo con una vuoto dentro che non sai bene cos’è – non sai, cioè, cosa c’era prima; guardi il cielo e per la prima volta vedi le stelle, e ti sembra di poterle contare; ascolti l’affievolirsi del traffico in lontananza e i passi delle persone che rientrano a casa; ti sembra, anche se non può essere, di sentire i loro pensieri, proprio identici ai tuoi.
Allora lo vedi, lontano e vicino al tempo stesso: quel punto verso cui tutto converge, il respiro in coro delle cose, il tempo fuori dai cardini e il tuo io sparigliato.
È possibile che in quel momento ti scenda una lacrima, la prima davvero tua.
È possibile, perché la fortuna ha un limite, che la connessione internet faccia cilecca, e non puoi spararti quella serie che ti eri pregustato quando i tuoi sono usciti dicendo che non sarebbero tornati per cena.
Allora, già che ci sei, apri un file sul computer e ti viene voglia di scrivere.
Non sai perché, lo fai e basta. Anzi, sei abbastanza sicuro che alla fine sarai lo stesso idiota di prima.
Lo stesso, sputato.
Solo un po’ diverso.
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Era novembre.
Non sarò retorico.
A sedici anni mi sono drogato, ho guardato il cielo e per la prima volta ho visto le stelle, e mi è sembrato di poterle contare; ho ascoltato l’affievolirsi del traffico in lontananza e i passi delle persone che rientravano a casa; mi è sembrato, anche se non poteva essere, di sentire i loro pensieri, proprio identici ai miei.
Allora l’ho visto, lontano e vicino al tempo stesso: quel punto verso cui tutto converge, il respiro in coro delle cose, il tempo fuori dai cardini e l’io sparigliato.
Così ho pianto e mi sono fatto una sega.
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