Le una in spiaggia sono un’ora tosta, il sole picchia senza ritegno e ci stordisce la luce. Prendiamo dei legni per fare un riparo, compriamo un telo per fare un tetto. Fabbrichiamo un po’ d’ombra. Siamo troppi però, io resto fuori. Che strani i corpi umani seminudi, ammassati vicino. Il concetto di bellezza perde di valore e di senso qua al mare, sotto il sole delle una. Anche Karen, così bella d’inverno con i suoi scialli e i suoi pantaloni di velluto consumati, così splendida d’autunno con le sue camicie abbottonate fin sotto il collo, adesso mostra clavicole sporgenti, scapole a punta, ginocchia appena squadrate. Carlo esibisce senza vergogna delle cosce magrissime. Andrea invece ha un collo osceno, bitorzoluto e lungo, che da vestito nasconde sotto baveri fuori moda. Le cosce degli uomini. I nei. Di me non parliamo neanche.
Alle tre e mezza penso di morire di sete. Qualcuno ha comprato della frutta, forse c’ero anch’io nella conta. Va molto di moda mangiare frutta in spiaggia. L’acqua però è finita così mi offro di andarla a comprare. È lontano, ci sono un paio di chilometri di pineta da attraversare e la cosa mi fa passare da eroe. In realtà non aspettavo altro.
Il concerto delle cicale è incessante. Le cicale sono insetti spaventosi e orribili. Vedo le loro pelli abbandonate sulle cortecce dei pini. Sono dorate e trasparenti, fedeli calchi del corpo maturo, immobile mentre cambia per sempre. Ci sono anche quattro o cinque esoscheletri vicini, se ti lasci ingolosire, intere piccole famiglie ognuno accanto all’altro prima di sfarfallare via. Il sole penetra appena e li fa risplendere. La metamorfosi eternata. Da piccolo le sgranocchiavo come patatine.
In fondo alla pineta ci sono due tizi sciolti nella luce. Molli carcasse inerti, miraggi. Non posso non pensare all’esistenza come a un furto continuo che perpetriamo gli uni verso gli altri. Furto di spazio, furto di traiettorie. Adesso o io o loro dovremo spostarci e fare spazio. Furto di ossigeno nelle stanze chiuse. Furto d’ombra sotto i ripari improvvisati. Vuoi sedere? No no stai pure. Furto di acqua e di cibo. Furto d’idee, furto di parole. Ci rubiamo l’amore di sotto il naso, e anche quando ci amiamo ci togliamo la libertà di non amare nessuno, di essere dei perfetti sconosciuti in una macchina che viaggia la notte. Furto di parcheggi, di carrelli della spesa, di posti negli autobus. Furto di silenzio, furto di pace. I tizi non si spostano. Da vicino sembrano arabi ma non sono mai stato bravo con le nazionalità. Dio, ti prego, polverizza queste cicale adesso. Rilassa le mie tempie e dona a me la pace. Ma arabo poi è una nazionalità? Uno dei due si avventa su di me facendomi quasi cadere mentre l’altro cerca di sfilarmi il portafoglio. Ci accapigliamo per terra tra i mucchi di aghi marroni e la sabbia mentre afferro una pigna.
Arrivo alla macchina e accendo il motore dopo essermi spiegato con il parcheggiatore, un buzzurro scortese e idiota, più animale che uomo, che in questo frangente diventa una specie di padre putativo. Esco finalmente dalla provinciale. Sudo moltissimo. Dio ha inventato le sopracciglia per impedire al sudore di entrarmi negli occhi mentre guido, adesso. Accelero. Passo varie uscite e svincoli, tiro dritto senza il minimo dubbio, verso la parte scura del cielo. Passo oltre autogrill e campi di girasoli, oltre gli hotel economici e la fabbrica del pane. Passo oltre le macchine che sorpasso, facce chine di gente disperata e felice. Furti di tempo, furti di paura. Non facciamo altro che rubarci le cose l’un l’altro. Guido nella notte senza il minimo dubbio e vado avanti, un perfetto sconosciuto in una macchina.
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