Essi Vivono ST02, ep10
di Giovanni Marco Maggio
Io a Marcuccio volevo bene e lui ne voleva a me, o così pensavo che fosse, perché non è che ce lo confessassimo troppo spesso questo bene che ci volevamo: sapevamo che tra maschi eterosessuali le dimostrazioni d’affetto non sono ben viste e quindi preferivamo evitarle. Però lo capivamo entrambi; io, per esempio, lo capivo ogni volta che rientravamo dentro lo spogliatoio dopo l’ennesima sconfitta al calcetto del mercoledì e lui se la prendeva con gli altri compagni di squadra per gli svarioni e le posizioni sbagliate e i passaggi a vuoto, e a me diceva soltanto: dai, secondo me non hai giocato male, anche se di solito ero il peggiore.
Il giorno del suo funerale ero seduto in ultima fila e guardavo gli altri sfilare verso le panche a inizio navata. Scuotevamo la testa, e non dicevamo altro. Più o meno c’erano tutti, amici colleghi parenti compagni e avversari, e c’era pure quel chiattone del prete che durante l’omelia attaccò un discorso sul fatto che Dio chiama a sé le anime più pie e più pure per circondarsi di angeli giovani e belli eccetera eccetera. Ricordo che, mentre il prete parlava, tirai fuori il cellulare e piansi di nascosto, con una mano a coprirmi il volto, e scrissi a Marcuccio: dovresti sentire che cazzate sta sparando quello. Comparve una spunta, poi due, ma non divennero mai blu, e nessuno lesse le mie parole.
Continuai a scrivergli nei giorni e nelle settimane successive; prima lo feci per cercare consolazione e poi per abitudine, ché negli anni mi sono reso conto che a volte l’abitudine è una cosa ancora più forte e dura a morire del nostro bisogno di consolazione. Intanto la spunta era diventata una sola e i messaggi risultavano inviati ma mai recapitati all’utente. All’inizio gli scrivevo con costanza, poi più raramente e soltanto in momenti che reputavo importanti: gli mandai un messaggio la sera in cui conobbi Roberta, lo contattai quando cambiai lavoro, gli scrissi per informarlo che un nostro ex compagno di classe delle medie si era candidato come consigliere comunale con un partito di estrema destra. A un certo punto, sentii che si stavano esaurendo le cose che avevo da dirgli, e questo mi fece molto male. L’ultimo messaggio, prima di quello che sarebbe effettivamente stato l’ultimo, riguardava la nascita di Alice: gli avevo detto che, se il nascituro fosse stato maschio, mi sarei sentito in dovere di chiamarlo come lui, con buona pace di mio padre, ma maschio non era e quindi si sarebbe chiamata Alice, come la canzone che gli piaceva, con buona pace di mia madre.
Prima di entrare in campo, quella sera, gli scrissi che avremmo avuto tanto bisogno di un leader come lui per portare a casa la finale del trofeo scapoli contro ammogliati. Se hai voglia, aggiunsi, ci trovi al campetto alle nove, puoi venire a darci una mano. Erano passati più di tre anni: erano tanti o pochi, mi domandavo: non lo sapevo. Inviai di fretta, senza pensarci, e posai il cellulare dentro al borsone, poi entrai in campo, e giocai poco e male come sempre, ma vincemmo grazie a una carambola nei minuti di recupero. A fine partita festeggiammo con qualche birra e una torta che raffigurava la squadra al gran completo, Marcuccio incluso.
Dopo la doccia ripresi il cellulare e trovai due chiamate perse e un messaggio di Roberta: mi informava che Alice aveva le placche in gola e che dovevo passare a prendere delle medicine in farmacia. Mi accorsi però che avevo ricevuto un altro messaggio, e questa volta veniva dal numero di Marcuccio. Un tonfo al cuore mi mozzò il respiro e mi annebbiò la vista. Recitava: io non ioco più al palone, cazo vuoi da me, lasciami in pace. Cliccai sulla foto: c’era un padre di famiglia con una bambina in braccio e, dietro, a fare da sfondo, edifici dalle facciate mai ultimate e tralicci e fili scoperti di un paesaggio post comunista. Accanto al numero che era stato di Marcuccio, c’era il nome del nuovo proprietario: Ionut. Rimasi qualche minuto a riflettere, poi bloccai il contatto e cancellai il numero e salutai gli altri e me ne andai. Avevo un sasso in gola. In attesa che il commesso della farmacia di turno mi consegnasse una scatola di antinfiammatori e una di antibiotici attraverso lo sportellino metallico, ripensai ai tre anni trascorsi e a come mi sembrasse che da quell’incidente il tempo avesse subito una deformazione che non ero in grado di spiegare: per me era andato tutto veloce, con una velocità che però non mi sembrava appartenere al mondo reale. Pensai anche a come la vita cambia tutta, improvvisamente, una sera in cui stai guardando un programma demenziale con una papera che rincorre un bambino oppure non cambia affatto. Si ferma e basta. Pagai in contanti e tornai a casa: era mezzanotte e Roberta stava ancora lavorando al computer e Alice piangeva a dirotto e non c’era modo di fermarla. Quella notte non presi sonno e, dopo aver messo a dormire Alice, steso su un fianco con il telefono in mano, pensai tutto il tempo al mio vecchio amico e al suo numero di cellulare.
BIO
Giovanni Marco Maggio è nato a Marsala nel 1993. Vive, lavora e scrive a Roma. Alcuni dei suoi racconti sono apparsi su Risme, micorrize, Pastrengo, Rivista Blam, Marvin, In fuga dalla Bocciofila, Narrandom, Oblique Studio e ILDAi. Da due anni gioca in prestito all’Albinoleffe.
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