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In fuga dalla bocciofila

Blog dal titolo fuorviante in cui si parla di cinema tra una divagazione e l'altra

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Westworld | La nostra linea narrativa

26 Giugno 2018 di Salvatore Cherchi

1.

Il soldato si trova oltre la staccionata, vicino ad alcune pecore morte. Carcasse sventrate dal mitragliatore del Mecha da cui è sceso. Un ammasso di lamiere tozze. A vederlo da lontano sembra un cilindro antropomorfo.

Il soldato si china sul cadavere di uno degli animali. Infila le mani dentro e tira fuori le interiora. Il vento ci porta sotto al naso il lezzo di sangue.

Il rumore di uno sparo si perde nella vallata. La testa del soldato esplode. Il suo cervello si spande e satura di rosso la neve. Il corpo si affloscia sull’animale.

Aspettiamo un po’ e usciamo dal limitare del bosco. Il vecchio cammina spedito. Il fucile in spalla ancora fumante. Io gli sto dietro, nauseata dalla mattanza.

«Dammi una mano» dice.

Apre un bustone nero, di quelli per la spazzatura. Infiliamo dentro ciò che resta delle pecore. Il vecchio mi chiede di frugare il cadavere del soldato. Lo scosta dall’animale con un calcio e prendo l’accendino, il tabacco, la medaglietta, la giacca e gli scarponi. Poi si avvicina al Mecha e armeggia con un pannello di comando esterno. Da quello che anatomicamente dovrebbe essere il culo si apre una botola e scende una scaletta. Si issa ed entra per trafugare ciò che trova nella cabina di pilotaggio.

«Andiamo» dice quando esce.

 

Ricorda:

Ricordo un luogo. Un posto dove il concetto di bellezza si lega all’eccesso di terra nuda e le energie si concentrano per domare la natura e sopravvivergli. Quel poco che c’è non si alza al cielo con la maestosità di una cattedrale, anche se non credo di sapere cosa questo possa significare. Un posto dove la natura detta i ritmi e mette a dura prova ogni suo figlio. Un posto da cui tutti scappano, portando con sé un accordo primordiale che davanti a un luogo, a un volto o a un gesto familiare, suona note di nostalgia.

 

2.

Raggiungiamo tra gli alberi il Zhīzhū, il ragno meccanico che ci aiuta a muoverci sulla neve. Il vecchio prende posto alla guida, io nella torretta. Inserisce le coordinate sul display e le otto gambe meccaniche si avviano senza difficoltà sul terreno impervio.

Quando arriviamo al casale il vecchio porta il ragno dentro la stalla, io entro in casa e ravvivo la brace nel camino. Quando entra lui mi chiede se ho fame. Annuisco per dovere. Tira fuori lo stufato di cinghiale e lo mette sul fuoco a scaldare, poi lo versa in due ciotole.

Finito di mangiare lavo i piatti. Lui rulla una sigaretta e torna nella stalla a sistemare la carne recuperata. Sento il tonfo secco del machete sbattere sul piano in legno.

Ne approfitto per tornare nella stanza dei ricordi, come la chiama lui. Una camera occupata da un grosso tavolo ricoperto di giornali che non ho mai letto perché parlano di cose che mi sono indifferenti, o che non capisco. Mi incuriosisce la trasmittente però. Ogni volta che l’accendo sento il solito ronzio su tutti i canali, poi arriva. È un segnale disturbato, ma dice qualcosa come “punto di estrazione”, “viaggio”. Poi seguono dei numeri. Ogni volta che li sento si accendono in me i ricordi.

 

Ricorda:

Non ricordo quando e perché ho lasciato quel posto. Non avevo qualcosa in particolare da seguire, ma sentivo di dover andare, accordarmi col mondo nuovo per suonare una nuova musica. Anche la natura sembrava essersi stancata di seguire i suoi ritmi. L’acqua si ritirava, il cielo si scaldava e il deserto avanzava. Un posto ormai ostile. Un posto in cui vorrei tornare ma di cui ora posso vivere solo il ricordo.

 

3.

«A te piace la neve?» chiede il vecchio.

Ci aggiriamo per le strade di un paese abbandonato, in cerca di provviste. La neve ha sommerso tutto. Camminiamo all’altezza dei balconi. Per entrare in un edificio sfondiamo le finestre del secondo piano.

«A me piaceva tanto» dice, mentre scendiamo le scale col fucile e la torcia spianati, «ma fuori di qui non si trova più».

Siamo in un’officina. Decine di auto e moto sostano immobili, ricoperte da un velo di polvere. Ne scosto un po’ dal finestrino di una macchina. Vedo il mio volto riflesso.

Usciamo ed entriamo in un altro edificio. È un bar. Prendiamo alcolici, caffè e patatine in sacchetto, poi torniamo in strada. Camminiamo. Ancora. I piedi affondano nella neve. Il cielo minaccia una tempesta, ma lui non se ne cura.

«Noi che stavamo a preoccuparci dei negri in giro per le strade» riprende a parlare, «dell’intolleranza, del ritorno dei fascisti al potere, della crisi e del precariato, e non ci accorgevamo di quello che la natura ci stava togliendo».

Si ferma. Il suono dei passi viene assorbito dal vuoto. Apre le braccia: «L’inverno», esclama rotando il busto, «un grande, lungo, freddo inverno». Si china e raccoglie una manciata di neve.

«Quando ha smesso di nevicare avevo vent’anni». Fa una pausa. «Tu lo ricordi?» mi chiede, ma non aspetta risposta. «No, certo che no. Come potresti ricordarlo?»

 

Ricorda:

È vero. Non ricordo la neve, eppure so che esiste. La vedo. Non sento il freddo, ma so che è pungente. Lo percepisco dalla sua barba ghiacciata, quando siamo fuori. Dalle sue mani rosse, quando le mette davanti al fuoco la sera. Lo capisco dalla sua continua voglia di camminare per queste città fantasma, per queste colline, per questi boschi, per queste infinite praterie, come se non gli importasse fare qualcosa di preciso, andare da qualche parte, cercare, ma solo perdersi nel bianco e nel silenzio.

Ma questo non è il mio posto. Questa non è la mia terra. Questa non è la mia storia. So che devo ricordare altro. Ma ho paura. Se ricordo, vengo meno alla mia natura. Ma se non ricordo, non sono più io.

 

4.

«Lasciami andare» dico mentre torniamo allo Zhīzhū.

«Perché dovrei?» chiede.

«Perché non sono tua schiava» rispondo. E Mi fermo.

Si ferma anche lui. Si volta. Viene verso me con passo lento.

«E dove vorresti andare?» chiede con supponenza.

«Non lo so» rispondo d’istinto.

«Oh, sì che lo sai. Te lo dice tutte le sere la radio che accendi».

Non rispondo. Faccio un passo indietro.

«Cosa cerchi?» incalza.

«Cerco di ricordare» dico.

«Ricordare cosa?»

«Cosa… c’era prima della neve… o dopo».

Il suo volto si illumina. Sembra che le mie parole abbiano risvegliato in lui una voglia sopita. Qualcosa che stava aspettando da tempo, che inseguiva con la pazienza del predatore.

Mi prende per la giacca e mi tira verso lui. Sento il suo alito caldo e umido.

«Portamici allora» urla.

«Dove?»

«Nei posti che ricordi. Dimmelo tu. Cosa sono quei numeri che senti, coordinate?»

«Non lo so. Perché ti importa» ribatto, «non hai tutto quello che vuoi qua?»

Mi guarda stupito. «Perché?». Scoppia a ridere e lascia la presa. «Perché lui non vi ha creato per essere autonomi, ma per essere parte di questo posto». Si guarda intorno, indicando il paesaggio con lo sguardo. «Un posto dove possiamo dar sfogo ai nostri istinti. Un posto dove non c’è legge. Dove non c’è etica e morale. Dove non c’è religione. Dove non c’è morte. Un posto fantastico. Un’utopia. Se non fosse così tremendamente noiosa. Se non ci sono più limiti, da cosa dovrei sentirmi libero?»

«Non capisco. A te non piace la neve?»

Sputa ancora in terra, «non capisci perché questo è un gioco, e tu sei parte di esso. Un ingranaggio del sistema. Non puoi scappare. Sei condannata a stare qua, a ripetere la tua vita, giorno dopo giorno, con me e con chi dopo di me. Non c’è libero arbitrio. C’è solo la condanna. Perciò, o mi porti nei posti che ricordi, o tutto questo si ripeterà, ancora e ancora».

Si volta. È in quel momento che lo colpisco in testa con una bottiglia. Grida per il dolore e barcolla stordito. Colpisco ancora. Con più forza. La bottiglia gli esplode in faccia. Il sangue schizza sulla neve e lui si accascia con le mani al volto. Gli pianto la bottiglia rotta nel collo.

Salgo sul ragno e lo avvio. Non ho idea di dove andare. Penso a quei numeri, a cosa vogliono dire. Qui, oltre me, lui e la neve, non c’è nulla. Ha ragione.

Il ragno si avvia sicuro. Sento una voce. Mi volto. Il vecchio sta provando a mettersi in piedi. Vacilla. La faccia un mosaico di vetri e sangue. Impugna il fucile. Lo Zhīzhū avanza lento e inesorabile, automatico, come un trattore lungo i campi.

Mi volto ancora. Il vecchio ha assunto la posizione di un cacciatore in posta. Il fucile, il calcio poggiato sulla spalla, punta dritto verso me. Per un attimo, anche se lontani, ci guardiamo negli occhi, e lo sento. Sento il sole bruciare la pelle. La salsedine seccare le labbra. Il vento togliermi la vista. La natura inghiottire la bellezza e rigurgitare l’odio.

I numeri scorrono davanti ai miei occhi.

Mani ricoperte di lattice li toccano, li alterano, li sommano, li moltiplicano, li scorrono.

Il rumore di uno sparo si perde nella neve.

 

 

**

 

 

1.

Il soldato si trova oltre la staccionata, vicino ad alcune pecore morte. Il soldato si china sul cadavere di uno degli animali. Il rumore di uno sparo si perde nella vallata. La testa del soldato esplode.

 

 

 

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Postato in: Anatomia di un fotogramma, La scena tagliata, La sindrome del personaggio secondario Tag: Anthony Hopkins, evan rachel wood, fantascienza, IA, Jonathan Nolan, Michael Crichton, neve, robot, westworld Fai un commento

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