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In fuga dalla bocciofila

Blog dal titolo fuorviante in cui si parla di cinema tra una divagazione e l'altra

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Knight Of Cups | Un’analisi (forse) troppo noiosa che qualcuno definiribbe respingente 2

29 Novembre 2016 di ferruccio mazzanti

In estrema sintesi: TUTTO QUELLO CHE SO È SBAGLIATO. Da qui scaturisce il film come soluzione esistenziale attraverso il dialogo:

Brevissimo LP da ascoltare mentre si legge il pezzo

IO: Allora, c’ho pensato e la mia conclusione è che mi è piaciuto proprio tanto l’ultimo di Malick (Knight Of Cups). Lo stato confusionario, il montaggio che sfrutta differenti tipi di formato a proprio vantaggio, la prigionia a cui la ricchezza, il successo, il sesso, la libertà estrema conduce, questa prigionia che è un loop. Il cerchio il cui inizio combacia con la fine, dove però all’inizio non c’è coscienza, mentre alla fine sì. E la grandiosità del fatto che la presa di coscienza è la volontà che vuole il ritorno, l’eterno ritorno dell’uguale, per cui questo cambiare di segno della prigionia nella sua forma più alta di libertà senza però che le cose cambino in modo visibile. Il meno che diventa più nonostante che tutto rimanga immutato. Grandioso.

NON-IO: Rimaniamo amici anche se io non so se mi è piaciuto?

IO: Ah ah! Ma certo!

NON-IO: La sua volontà vuole cambiare ma il fatto è che una vita diversa non la sa pensare e quindi nemmeno vivere né sentire. Non c’è una evoluzione della coscienza, la quale è presente sin dall’inizio sotto forma di spaesamento assuefatto e rassegnato, è imbrigliata perché non ha decodificato gli strumenti che le permetterebbero di indirizzare la propria volontà verso un essere diverso.

IO: Sì, ma quello che voglio dire è: come si arriva alla descrizione che stai facendo te? Intendo concretamente come è che un uomo finisce in questo vicolo cieco?

NON-IO: Perché è vissuto in questo imperativo categorico: vivi, senti, godi, soddisfa i tuoi desideri perché questa è la felicità, poi si accorge che non è vero, che sente un vuoto o che non sente proprio nulla, nonostante si stia comportando come la società gli ha insegnato/indotto. Eppure persiste questa sensazione che è un “Non sto arrivando! Dovresti fare altrimenti”. È come non conoscersi. Avverti insofferenza ma non sai perché.. bo.. forse…

IO: Ok e una volta che un essere umano è finito in questo gorgo muto cosa fa? Voglio dire: quello che stai dicendo te è il modo in cui si arriva a questo blocco assoluto, ma come se ne esce?

NON-IO: Non lo sa, lui non sa come fare, per questo secondo me nel film non c’è evoluzione, il che è anche il suo bello, dire che anche se il film è “finito” non c’è per forza una soluzione, è solo stato posto il problema.

IO: Ok, ma se ti dicessi che l’unica evoluzione possibile è il volere la ripetizione? In modo sempre più intenso? Altrimenti non si spiegherebbe come mai Malick decida di finire il proprio film con la parola “Inizia”.

NON-IO: Non mi convince quello che stai sostenendo, perché secondo me… l’unica certezza è che l’uomo desidera sempre la novità e non la ripetizione. La ripetizione è un insuccesso che lo infastidisce, cioè io associo ontologicamente l’essenza dell’uomo al bisogno/desiderio di novità, di esplorazione dello sconosciuto, di scoperta, lui ripete “perché non Sto arrivando!”. Invece dovrebbe pensare con categorie diverse, ma è demotivato da questa ripetitività.

IO: Ok, sembra che io voglia trovare elementi eticamente ottimistici nel film, che di ottimistico ha veramente poco. In realtà non la sto intendendo in questo senso. Quello che intendo è che proprio questo “non sto arrivando da nessuna parte” è la forma più estrema di libertà. È una cosa contraddittoria e ancor di più è contraddittorio pensare che questa forma di inconcludenza sia in definitiva voluta con sempre maggior desiderio. Questo lo deduco dal fatto che il film finisce proprio con la parola “inizia”, che vuol dire sia “esci dal loop” ma anche “inizia il loop”, come se poi in definitiva tra le due opzioni non ci fosse una reale differenza. Per cui il livello massimo di libertà consiste proprio nel prendere coscienza della mancanza di differenza, cioè nel prendere coscienza del fatto che sei in qualche modo imprigionato, non ne esci, e che il desiderio pur cercando sempre il nuovo, in realtà si struttura sempre sull’uguale.

NON-IO: Forse si, direi che sei in assoluto il più pessimista allora.

IO: Ah ah, sì lo so, me lo dico in molti.

NON-IO: Di solito non mi batte nessuno…

IO: Ah ah, ma al culmine dell’ottimismo c’è il suo culmine opposto, e viceversa.

NON-IO: Solo spiegami perché secondo te lui sceglie e non subisce la sua vita, cioè come si può dire che potrebbe scegliere diversamente?

IO: Ma lui subisce la sua vita per tutto il film, solo che alla fine sceglie di iniziare (inizia) e quindi se riguardi tutto il film dopo averlo appena visto scopri che in realtà è una scelta: il loop come morale, la ripetizione sempre più disperata e senza appiglio come più alta manifestazione di libertà. Il desiderio come opposto ma uguale alla catatonia. Ancora una volta: tra scegliere e subire l’esistenza alla fine non c’è differenza.

NON-IO: Per esempio… tutte quelle scene di lui in un paesaggio naturale… che non trasmettono niente… almeno così l’ho sentito io, mentre di solito c’è l’evocazione del paesaggio naturale per richiamare l’uomo che viene dalla terra, che fa parte del cosmo… ok così troppo friky. Ok ormai sono in un loop anche io a cercare di seguirti nell’idea di non scelta che è una scelta o meglio riscelta da quello da cui volevi allontanarti: così è tremendamente pessimista.

Conclusione: Boh, alla fine non lo sappiamo di cosa parli questo film, però sappiamo che è veramente molto fico.

knight-of-cups

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Postato in: Oceani di autoreferenzialità Tag: Ficht, Io, Malick, NON-IO Fai un commento

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