A Expo c’è l’Albero della vita, che per chi non lo sapesse è un torrione alto trentasette metri in legno e acciaio, dotato di decori floreali, che s’innalza in mezzo a un laghetto punteggiato di fontane e all’occorrenza sputa fumo colorato (l’albero, non il laghetto, quello sprizza solo getti d’acqua). Dato che questa specie di totem che sembra uscito da un festival goa-trance è costato svariati milioni di euro, viene da domandarsi quale sia la sua reale utilità. Risposta: nessuna. Ma hey, è una fiera, e i visitatori vogliono intrattenimento. A Jurassic World invece c’è l’Indominus Rex, un bestione creato in provetta shakerando geni di T-Rex con quelli di altre varietà animali per ottenere un ibrido che unisca la ferocia di un grande carnivoro preistorico a una forza e un’intelligenza fuori dal comune, senza contare una forte propensione a uccidere. Anche l’Indominus è costato alla Masrani Global svariati milioni di dollari, oltre che un rischio d’impresa non indifferente. Ma anche qui, stiamo parlando di un parco tematico, e i clienti vogliono più zanne, più artigli, più sangue.
Quando si tratta di grandi operazioni bisogna rischiare. D’altra parte viviamo in un’epoca in cui i bambini si avventano senza paura su schermi touch e non si stupiscono se un film è in 3d, ma se non lo è. Meravigliarsi è sempre più complicato, se si fa trenta bisogna fare anche trentuno e poi, senza stare tanto a stigmatizzare i nostri tempi, ricordiamoci che per un’Expo di circa un secolo fa a Parigi è stata tirata su una torre a lungo oggetto di non poche polemiche e oggi riprodotta su un numero incalcolabile di cartoline. Allora vai con i padiglioni più strambi e futuribili, che pare che per costruirne certi siano state utilizzate tecnologie di derivazione aeronautica brevettate appositamente. Ci sono quelli a forma di loto, di pannocchia, di pagoda, di alveare, di duna di sabbia e di fortezza nel deserto. Vai con le parate con i pupazzoni a forma di frutta da cui sbucano gambe e braccia umane, con le code chilometriche all’ingresso, con le riproduzioni iperrealiste di giganteschi banchi di mercato realizzate da un famoso scenografo premio Oscar e i ristoranti etnici non proprio alla portata di tutti.
E già che ci siamo allora vai anche con un mosasauro di diciotto metri che divora squali bianchi come fossero croccantini. Vai con i raptor (più o meno) ammaestrati, con silenziosissime sfere rotanti biposto a sostituire i classici trenini su rotaia che sbuffavano su e giù per il parco terrorizzando gli animali, con immani voliere piene di pteranodonti gigantschi e pianure su cui pascolano interi branchi di apatosauri, mica tre o quattro. Vai con l’ingegneria genetica, che se qualche anno fa estrarre dna da un insetto intrappolato da secoli in una goccia d’ambra sembrava impossibile oggi la faccenda non basta più, e i bestioni bisogna crearli più grossi, più forti, più spaventosi, non tanto per la famosa questione di sostituirsi a dio, quanto per la molto più prosaica legge della domanda e dell’offerta. Dura lex, sed lex.
Eppure, anche se un episodio pilota e due sequel pieni di persone che passano a miglior vita per via di animali teoricamente estinti avrebbero dovuto insegnare qualcosa all’amministrazione del parco, io a Jurassic World mi sono divertita. Ci sono stati magari un po’ di contrattempi, vero, ma come fai a mantenere quell’aria di critico distacco quando tutto è così smaccatamente grande, così impertinentemente stupefacente, così esageratamente spassoso? E vi dirò, mi sono divertita anche a Expo. Lo so che non sono esattamente la stessa cosa. Da una parte c’è un parco giochi con i dinosauri, dall’altra uno con i padiglioni di 130 nazioni diverse, ma la megalomania, quando è maldestra, fa tenerezza in tutte le sue forme. Una sola sostanziale differenza: se per Jurassic World i fondi li ha trovati nonno Spielberg senza rompere tanto le scatole a nessuno, per Expo non mi risulta che la cosa sia andata proprio allo stesso modo.
Rispondi