Joker 1
Circa una decina di anni fa in piazza Santo Spirito viveva un Joker. Aveva la barba lunga e il suo corpo si era come addensato in una forma ridotta, quasi a rimarcare la sua intenzione di occupare la porzione più minuta di questo mondo. L’ho sempre visto con un cartone di vino in mano che rideva. La sua voce stridula, rovinata dalle molte sigarette che fumava. L’ho sempre visto che rideva con gli occhi socchiusi, acidi, pieni d’amore. Rideva di chiunque gli passasse accanto. E apostrofava con irriverenze. E odiava il sole. E rideva. E cantava. E si rimpiccioliva sempre di più. E la notte, quando il suo letto tra i cespugli di piazza Santo Spirito si riscaldava grazie al suo stesso corpo, rideva ancora e ancora. L’ho visto piangere alle quattro del mattino, non sapeva neanche perché. E se uno dei tanti giovani benestanti di questa città gli si avvicinava col cuore pieno di buone intenzioni, lui subito scoppiava a ridere e ti vedeva dentro e con una delicata irriverenza inventava una storia qualsiasi. Ho creduto più alle sue fantasie che alle mie percezioni. Inventava la tua vita e la raccontava come se fosse stata la sua. E rideva, rideva, rideva di te. E al suo funerale tutto il quartiere deriso è sceso in piazza per celebrarlo.
Joker 2
Rosso. Ma un rosso quasi marrone. Anzi proprio marrone. Quasi grigio, anzi proprio grigio, ma un grigio sporco, un grigio scuro, hai presente quel grigio che è simile al nero? No, guarda, volevo dire nero, facciamo che è nero, va bene? Nero. Nero come le cose buie. Non primavera, non fiori, non luce, non foglie di té sul tavolo. Neanche colazione o bei discorsi davanti a una birra. O sigaretta dopo il sesso. Facile per te fare sesso. Io ho questa risata nervosa. Vado dallo psicologo. Vado a fare lunghe passeggiate. E vedo nero. Non un nero vero e proprio, non è un nero come il buio. Direi che è quasi un grigio sporco, molto sporco, tendente al marrone. Un marrone vivo, con alcuni accenti rossi, anzi direi che è rosso. Ecco, sì, io vedo rosso. Rosso. Rosso.
Joker 3
Se gliene fosse importato qualcosa non si sarebbe preso tutte le cose che si prendeva giornalmente. La notte aveva dei tremori. La sua carnagione magrebina e il suo accento nord africano balbettavano nei sogni. Le sue pupille si dilatavano fino allo sfinimento ogni sera prima di colazione, cioè prima che si rendesse conto che era l’ora di pranzo, di cena. Ora in che senso? E poi scoprì come trasformare quella dilatazione in una cruna di un ago, uscendo fuori dalla porta del tempo e da lì, come un brivido freddo che percorre la superficie delle tue ossa, sotto i muscoli, in un fiore cartaceo di sangue spinto giù dalla luce scollata, la luce luminosa, la luce nel suo senso più puro, profetizzava la follia generale. Non c’era più buio fino a quando il suo corpo non pretendeva un altro stato vegetale. E se gli domandavi come potesse non pensare al suo futuro, lui si ergeva come una torre Eiffel in tutta la sua scheletrica rigidità e rideva. Aveva ragione. Aveva ragione solo lui. Non gliene importava più nulla. Di niente. Si sarebbe potuto gettare di sotto da una finestra solo per uno strano senso di disinteresse. Al suo funerale il sole strizzava raggi tra le foglie di alberi silenziosi. Nessuno ha detto due parole in suo onore e poi eravamo solo in cinque. L’unica persona che piangeva era sua madre. E pensare che non si parlavano da sei anni. Gli altri quattro indossavano vestiti con maniche lunghe e volevano solo dimenticare. Andare avanti. Tornare in uno spazio stabile. Respirare. Avere fiducia. In te, in lui, in lei, in chiunque voglia fermarsi un attimo ad ascoltare. Ma tutti tranne uno sono poi finiti in prigione. E oggi si corrodono di rabbia ogni volta che ci vedono passeggiare nei nostri comodi sorrisi.
Joker 4
Non riuscivo, ascoltami bene, non riuscivo a capire se stessi piangendo o ridendo. Credo che fosse entrambe le cose. Lo so che può sembrarti strano, ma ero euforico e disforico allo stesso tempo e con una intensità tale che ho pensato che mi stessi per strappare. Come in quella tortura dove leghi ogni arto di una persona ad un cavallo diverso e poi fai partitre i cavalli in direzioni divergenti. Ecco così io dentro, tirato da stati d’animo opposti. Era inospportabile, mi sembrava di non potercela fare, avevo questa esigenza di non stare fermo, ma ero talmente esausto che non riuscivo a muovermi. E così, ti sembrerà assurdo, ma ascoltami, ero paralizzato mentre correvo in casa. E se avessi trovato una corda o un coltello, non so come sia possibile che non li abbia trovati, ma non li ho trovati e se li avessi trovati, ecco, ascoltami bene, adesso non sarei qui a raccontarti che non li ho trovati. E ho continuato ad agitarmi per paralisi finche non ho sentito un vero e proprio strappo al mio interno, il mio corpo interiore, la mia anima, il mio cuore, chiamalo un po’ come ti pare, che si lacerava trascinato da equini lanciati agli opposti ed è stato esattamente in quell’istante, in quell’istante lì che io ho realizzato che ero finalmente libero. Che il mio equilibrio, il mio vero equilibrio era inalterabile, irrevocabile, inamovibile. E mi sono messo a ridere, ascolta bene, mi sono messo a ridere senza riserve, da quella che mi sembrava un’altezza concessa solo alle divinità. Non tanto perché io fossi diventato un essere superiore, quanto piuttosto perché la distinzione tra bene e male era diventata una cosa ridicola.
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