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Ipotesi di sopravvivenza | Böcklin

6 Aprile 2022 di ferruccio mazzanti

Tengo con la barra la prora in direzione dell’isola dove lo conduco come tanti prima di lui. Con entrambi i piedi sulla tuga osserva il calar del sole, mentre procediamo al mascone del tutto sbandati. La mia barca è così carica di persone che taluni scivolano o vengono spinti senza rammarico dagli altri passeggeri nelle gelide acque senza fine; dunque questa vastità né blu né nera è piena per miglia e miglia di corpi che non sanno nuotare e non annegano, ma continuano a urlare che qualcuno li salvi, sbracciando, strappandosi le vesti per usarle come richiamo, sputando l’acqua che gli è entrata nei polmoni, tossendo, affogando per l’eternità senza poter far cessare la loro sofferenza, con la pelle che giorno dopo giorno si gonfia, marcisce e si stacca dalla carne, l’umido che scarnifica, l’acqua salata che cuoce le ferite, in attesa che qualcuno li salvi, ma su questa rotta transita solo la mia barca, così che il destino di tutta quanta l’umanità è già compiuto, mentre navigo senza curarmi di loro, attento solo a raggiungere la meta.

Coloro che fanno attenzione a rimaner ben saldi sul ponte sono talmente stanchi e abbattuti che coi loro stracci e i loro pianti mi fanno provare disprezzo: le mani a coprire il volto, non vedono nulla se non l’oscurità prodotta dai palmi premuti suo loro stessi occhi, non sentono nulla se non i loro stessi singhiozzi, non capiscono nulla se non la loro tristezza, e pensare che si credevano persone importanti, si ripetevano “non mi arrenderò mai”, amavano, sognavano, si rimboccavano le maniche e aprivano attività e compravano vestiti eleganti e parlavano come se sapessero tutto e col tono supponente giudicavano gli altri e si davano le arie della nobiltà e poi si vantavano dei loro successi e dall’alto della loro posizione decretavano i destini altrui; ma lui no, lui passava le giornate a domandarsi dove fosse, cosa fosse, quando fosse, chi fosse, era spaesato e perso, minuto e impaurito e senza aver trovato una sola risposta in tutto quel tribolare dentro alla sua scatola cranica si sentiva un verme. Ho sempre apprezzato quelle creature la cui prospettiva è poco più alta del suolo che tutti gli altri calpestano con noncuranza, anche se non mi sono mai curato di chiedere loro il nome e così fu lo stesso per lui, morto proprio come tutti gli altri, né più né meno.

Lui rivolge la testa verso l’alto e gli occhi appena lucidi per la scoperta dello splendore di questo mondo che se ne va proprio davanti ai suoi occhi senza che possa farci nulla e mi dà le spalle per non perdersi le innumerevoli curiosità di un paesaggio sempre uguale a se stesso e sempre mutevole come è il mare. Senza distogliere lo sguardo dalla linea estrema della curvatura terrestre mi parla:

«Guarda – mi dice tra i lamenti degli altri passeggeri – guarda là, lo vedi?»

Ma io non vedo nulla se non il consueto orizzonte per me piuttosto privo di interesse e così per non offenderlo con equità taccio.

«È la liquida, fluttuante, libera, informe vastità – continua come se io fossi un mero spettatore e non il protagonista di questa storia – in qualche modo è l’epitome dell’indifferenza che si avventa su di me. Una sconfinata distesa di liquido che ha la capacità di annichilire flemmaticamente ogni azione umana. Questo flusso che vince su ogni cosa che l’uomo abbia mai costruito, uno spazio indomabile, l’ultimo luogo dove ogni progetto è impossibile. Non ci sono nascondigli dove andare a riparare nella tempesta e qualsiasi disastro come ogni più fortunata cosa viene qui riassorbita fino a diventare un museo per i mostri che nell’oscurità dell’abisso si trovano a loro agio. E noi ci siamo immersi dentro, nuotiamo, gridiamo e vediamo solo quei pochi metri intorno a noi, quei pochi metri che nel terrore della vita ci sembrano un intero universo. Guarda – ripete senza indicare nulla ma con l’indice proteso verso qualche luogo – la catena alimentare, guarda il tempo che precipita in un loop fino a diventare un solo punto, guarda come questo ritorno alla mia origine sia solo il solito triste viaggio già infinite volte ripetuto. Tutto quello che sono, tutto quello che chiunque mai sarà, non ha mai alterato questo luogo nella sua forma, dall’inizio alla fine. Tutto il resto è solo un’illusione che con amore vorrei sì tornare a sognare».

Sospira mentre lo ascolto in silenzio. Poi alcune lacrime iniziano a cadere dai suoi occhi spalancati sul tramonto e lo sento bisbigliare al vento talune parole che non origlio. La brezza batte sui matafioni slegati e mentre il sole sprofonda sulla superficie del mare piatto solo per i morti, ecco che in lontananza appare l’isola dove conduco giorno dopo giorno i miei ospiti.

 

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Postato in: Anatomia di un fotogramma, Cartoline dal foyer, La sindrome del personaggio secondario Tag: Böcklin, Caronte, Ipotesi di sopravvivenza Fai un commento

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