Chi sono i grandi escapisti?
Nelle lunghe e infruttuose settimane di ottobre ho pensato molto agli escapisti, senza venirne a capo. Ma forse anche scrivere un racconto è un escapismo?
Andare al cinema, leggere l’ennesimo romanzo, lo yoga, le sedute dall’analista, tutti escapismi?
Non ne vengo a capo, per questo provo a cambiare argomento.
Pensavo di scrivere un racconto sulla coppia, ma se scrivo “coppia” posso davvero prescindere dalla mia? Ogni filosofia, diceva N, non può che configurarsi come una forma di autobiografia. Lasciamo perdere. Il racconto sulla coppia che potrei scrivere, ecco qui: la storia di una coppia, ultimo residuo di non-escapismo, che, da una casa/razzo lanciata nella galassia più oscura, osserva lo stato del loro rapporto tramite il pothos, per capire come sta. Ma il pothos, dirà forse qualcuno dentro di me, dagli anni ‘70 del Novecento ha smesso di fiorire, si riproduce solo tramite talea, il pothos ha abdicato la sua stessa riproduzione e ha confidato che qualcuno lo propaghi al posto suo. Questa è forse una metafora? mi chiedo, mentre la casa volteggia nel cosmo. E se lo è, metafora di cosa?
Penso che potrei chiedere ai miei allievi del corso di scrittura di finire al posto mio questo racconto sulla coppia e sul pothos, delegare a loro la mia riproduzione.
Il mio psicologo mi ha domandato come penso di oppormi all’escapismo.
Non ne ho idea, ho risposto, intanto penso di fermarmi al momento negativo: riconoscere gli escapisti, ecco cosa farò.
Diana nella casa/razzo in viaggio verso le profondità dell’universo mi guarda con i suoi occhi color bleu de travail e mi chiede chi sono i grandi escapisti, anzi chi sono i non-escapisti, se ne conosciamo qualcuno tra le nostre conoscenze. Non rispondo, perché non mi viene in mente nessuno, quindi mi affaccio dall’oblò affacciato sull’universo e guardo fuori le stelle.
Non fumi? mi chiede lei dopo un po’ Diana, di fronte a questo mio ennesimo atto mancato.
Sì, ora fumo, le rispondo e mi accendo l’ennesima sigaretta.
A una lezione di yoga, nella posizione del ponte, che poi a seguito di un consulto con mio padre si dimostrerà essere la posizione della ruota, chakrasana, mi veniva un mezzo attacco di panico così anche chakrasana diveniva metafora di qualcosa. Ma che si dica ponte o si dica ruota le cose sembrano essere molto diverse. Secondo me il ponte era una metafora di virilità e il mio psicologo gongolava, mentre consultandomi con degli insegnanti di yoga, tra cui mio padre, sembrava che il punto fossero i chakra, il quinto, l’emozione, l’essere completamente abbandonato, aperto a ogni possibile attacco esterno, completamente esposto. Dovrei davvero chiedere ai miei allievi del corso di scrittura di finire questo racconto, anche questo.
Mentre scrivo queste parole, racconto non direi, posso già immaginare il momento in cui leggeremo il racconto alla riunione di lunedì: la voce di Carlo che pronuncia queste parole che adesso compaiono sullo schermo del mio computer, mentre una musica ritmata mi culla di sottofondo, riapprodo a Four Tet, che nella sua circolarità mi trasporta in uno stato simile alla felicità.
Come mi proporranno di editare questo racconto? Impossibile.
Immagino lo sguardo sconsolato di Salvo, mi spiace davvero Salvo, avrei voluto fare meglio, un pochino meglio, non importava poi tanto, ma è andata così. E Elisabetta? Chissà se mi sta guardando con il suo sguardo buono, un mezzo sorriso che vuol dire: va tutto bene. Ma non va poi molto bene.
Domenica sera abbiamo visto con Diana Inside Out 2. In quel momento la casa/razzo si trovava poco fuori l’esosfera. Il film mi ha causato molta ansia, forse è per questo che poi sono finito a fare questi pensieri, ma in verità non credo, c’erano da prima.
A chi posso chiedere aiuto? Ai ragazzi del corso di scrittura? Ma cosa potrebbero rispondermi? Anche la domanda non è chiara. Forse potrei tenere un corso di escapismo, e anche in quel caso, chi dovrebbe darmi le risposte che cerco?
Ho detto al mio psicologo che avrei abbandonato ogni escapismo e ora eccomi qui a scrivere questo racconto, con la mezza idea che una volta finito (ma finita cosa?) mi metterò a leggere un romanzo che ho lasciato a metà, poi sarà già ora di entrare a lavoro, poi sarà finito il mio turno e farò un aperitivo con un’amica, poi andremo con Diana a cena nella casa/razzo di altri amici. E quindi?
I progetti, l’attesa, la musica circolare nelle orecchie. Non credo in queste giornate, in queste sedute, nelle lezioni di yoga, non credo in questo racconto, dicevo al mio analista, credo solo nel processo. Ma è vero?
O anche il processo è solo l’ennesimo escapismo?
Le stagioni, il pacco Uniqlo in consegna, il distributore di benzina, una telefonata con mia madre, scrivo senza alcuna convinzione queste parole mentre passa una pubblicità su YouTube, aspetto che finisca, ma sembra non voglia finire. Basterebbe alzarsi, raggiungere il telefono in carica da qualche parte, premere avanti e fare sì che la musica circolare ricominci di nuovo.
Lunedì scorso, in piazza Santo Spirito, parlando con Renato del nostro progetto poco chiaro, fotografie sue, parole mie, incontravo un’amica con la figlia e le chiedevo se avessero visto il film e quale fosse il suo personaggio preferito. Alice, otto anni, diceva Disgusto.
Il mio preferito non saprei. Forse Nichilismo.
Guardo fuori dall’oblò ed è quasi ora di andare a lavoro.
Rispondi