Quando Sandra si svegliò, il sole, già alto, trapelava attraverso le tende riempiendo i muri e il soffitto della stanza di riflessi che avevano la forma di buffi alieni, di sgorbi o di grassi insetti.
Per prima, Sandra sentì la testa. “Ti accorgi di averne una solo quando ti fa male”, pensò. Poi vide la bottiglia di rum orizzontale sul parquet, i due bicchieri – da rum – vicini l’uno all’altro e il posacenere colmo di mozziconi rossi di rossetto – il suo – a formare una specie di fiore appena sbocciato. Queste immagini, salpate dai margini dell’enorme letto in cui si era svegliata, formarono nella testa dolente di Sandra una teoria di fatti e relative responsabilità, quindi una sensazione di ansia e il timore infantile di essere felice: Sandra si ricordò.
Dopo la testa venne il resto del corpo. Sandra si toccò fra i seni dove il sudore iniziava a dilagare e scese giù, sullo stomaco e sulla pancia che borbottava, invocando il bagno – che cercò rapidamente con gli occhi, senza muovere la testa – e poi giù ancora, fra le gambe, si lisciò il pube depilato e ascoltò un lontano bruciore che inchiodò il ricordo, ancora vago, alla certezza.
Nella stanza, a parte lei, non c’era nessuno, ed era abbastanza sicura, anche se non c’era ragione per esserlo, che non ci fosse nessuno neppure nelle altre stanze; così si divincolò dalle lenzuola appiccicate alla pelle, scivolò giù dal letto assecondando la gravità, entrò in bagno e, senza aver cura di chiudere la porta o di non fare rumore, si liberò della cena thailandese di qualche ora prima, notando, con sorpresa, la resistenza del coriandolo ai suoi succhi gastrici.
Dopo aver tirato l’acqua, Sandra si lavò nel bidet – pensando che una doccia sarebbe stata ovviamente meglio, ma escludendo di fatto di accollarsi, in quel momento, tutti gli sforzi necessari – e si asciugò con un asciugamano morbidissimo e bianco su cui erano ricamate, in sottile filo blu, le lettere N. P.
Prima di uscire dal bagno, Sandra si ravviò i capelli con l’affettata noncuranza di chi si guarda spesso allo specchio, e andò in cerca della cucina.
La casa era incredibilmente luminosa e profumata – particolare, quest’ultimo, reso forse più evidente dal contrasto con i vari odori di poco fa, le sigarette, il sudore e i resti dell’esotica cena. Certo era che uno di quei robottini aspirapolvere aveva passato la mattinata a pulire e adesso giaceva stremato in un angolo del salotto.
Era così lucido, il pavimento, che sembrava di camminare nella hall di un albergo.
Sandra non ne aveva mai visto uno, così si avvicinò al robottino come se fosse un riccio schiacciato al lato della strada. Aveva letto da qualche parte che questi roomba, i robottini, fotografavano gli ambienti prima di pulirli, ed era capitato che foto private dei proprietari delle case venissero condivise da chi aveva accesso al database del roomba stesso.
Sandra pensò che il robottino la stesse guardando ma stranamente la sua nudità non la mise in imbarazzo.
Perché, pensò, era così certa che in casa non ci fosse nessun altro?
Anche la cucina dava l’idea di avere un elevato livello di automazione. Sicuramente, l’uomo con cui aveva scopato la sera prima – N. P., presumeva – aveva un’applicazione per controllare dalla distanza il riscaldamento della casa. Magari, pensò, ne aveva anche una per controllare il roomba e adesso la stava spiando per capire che tipa fosse. Magari l’aveva vista fare la cacca.
Sandra allungò il collo per assicurarsi che il robottino non fosse nascosto da qualche parte. Quindi, mentre cercava il caffè (il barattolo di metallo che lo conteneva sfoggiava, neanche a dirlo, la scritta “CAFFÈ”), si manifestò nella sua mente, improvviso come una secchiata di acido in faccia, l’ultimo tassello di quella notte. Il più importante: il tizio le era venuto dentro.
Dopo un primo panico dovuto alla totale assenza di preservativi – fatto che adesso le pareva ancora più strano, alla luce di che tipo di casa, e quindi di uomo, Sandra aveva davanti a sé – i due, alito pesante di rum, una canna fumata parlando di cazzate e nessun sospetto, neppure lontano, che ci sarebbe mai stato un domani, avevano deciso di scopare lo stesso, garantendo, lui, N. P., una speciale abilità nel salto della quaglia, salvo poi ammettere, col sorriso ebete della droga, che no, non gli era riuscito o gli era riuscito soltanto a metà. “Ups”, ricordava adesso Sandra, era stata l’ultima parola pronunciata da lui prima di cadere in una sorta di morte apparente, e lei aveva pure riso.
Allora corse in camera nel patetico tentativo di trovare tracce di sperma sul materasso o in qualche fazzoletto appallottolato vicino al letto, sapendo bene che se ne sarebbe accorta, per quanto in botta, se le fosse venuto sulla schiena o sui capelli – l’idea di farsi venire sui capelli era per Sandra come il luccichio sul naso per il celebre feticista di Freud – ma non trovò niente, ovviamente, neppure nei cestini o nelle tasche della giacca di lui (nelle tasche della giacca di lui?), così raccolse la bottiglia di rum e se ne tornò in cucina dove il caffè stava già sbuffando nella moka, se lo versò tutto in un bicchiere e ci aggiunse il mezzo shottino del delizioso veleno haitiano che era rimasto nella bottiglia.
Sandra era piena dello sperma di uno sconosciuto che aveva conosciuto su Bumble la sera prima (circa sei mesi percepiti), un tizio di cui ricordava soltanto la sua adorazione, al limite del fanatismo, per i Maroon 5, e che aveva cosparso la casa di fotografie di se stesso, ora al mare che fa surf, ora tutto rigido su una funivia, ora semplicemente al ristorante, davanti a un’ottima bistecca – iniziava a notarlo soltanto adesso, in un crescendo simile a quello di Rosemary’s baby, quando Mia Farrow fa due più due e capisce di aver cresciuto nel suo utero nientedimeno che il figlio di Satana. La casa era piena di queste foto dall’autore ignoto che non compariva mai, ritratti di tre quarti a indagare i misteri di un tramonto oppure primi piani, accurati e studiatissimi e opportunamente virati al seppia o al bianco e nero.
In salotto non il robottino, avrebbe dovuto notare, ma un altare, un piano di marmo che faceva sporgere dalla parete tutta una sfilza di trofei e di ghirlande che parlavano della sua storia atletica.
Eccolo lì, N. P., uno di quelli abbronzati tutto l’anno, eccolo che torna dalla sua corsa mattutina, scaracchia nel suo stesso giardino e si mette a fare stretching prima di rientrare in casa dove forse spera non esserci più nessuno – di certo non la madre dei suoi figli –, un uomo con il coraggio di farsi ricamare le iniziali su tutti gli asciugamani e le camicie ma incapace di saltare fuori da una vagina al momento dell’orgasmo. Che poi, a ripensarci, Sandra non era neppure venuta, e guardandolo riflesso in uno dei sedici specchi strategicamente disposti in camera l’aveva pure pensato, mentre le stava sopra, che doveva essere un coglione, la cena thailandese, i Maroon 5 e tutta quella ridicola filippica contro gli hamburger di seitan, ma tanto, si era detta, che male potrà fare, è un così bel ragazzo, sorride sempre (“un ragazzo di cuore”, si era convinta), e invece era solo l’ennesimo narcisista del cazzo, uno che parla di sé anche quando non parla di sé, che ti vede ma non ti guarda, che prova orgoglio anche per il proprio zerbino dove si sta togliendo le scarpe da corsa con le iniziali, neanche fosse Roger Federer – Sandra lo vede dallo spioncino e pensa che prenderà i suoi vestiti e se ne tornerà a casa, non lo saluterà neanche, chiamerà la dottoressa e si farà dare la pillola del giorno dopo, su questo non c’è margine di dialogo, e poi la sera uscirà con le sue amiche e si lamenterà di questo incontro e chiederà se anche per loro, il coriandolo, è così ostico da digerire.
Sandra si alza sulle punte dei piedi e si tocca fra i seni dove sta ricominciando a sudare.
Se ne andrà, è deciso. Ma prima – pensa Sandra mentre N. P. infila le chiavi nella toppa (sic), ansimante come un orso che rientra nella tana – gli chiederà di più di quella bistecca e di quel delizioso ristorantino che ha visto nella foto.
In fondo, si dice, che male potrà mai fare.
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