Se questa mattina avete imboccato Viale della Santa Pazienza, vi sarete chiesti come un’auto sia riuscita a infilarsi nella vetrina del barettino all’angolo, lasciando dietro sé detriti e panico. È una giusta domanda.
Tanto per iniziare, la macchina è mia ma no, non ero né sbronzo né distratto. Ho sfondato di proposito il locale. Ero entrato lì con gentilezza, e una richiesta semplice. Ma andiamo per ordine.
Io non sono un tipo complicato. Se entro al bar a fare colazione me la sbrigo velocemente: cornetto al cioccolato e cappuccino. Non tutti però sono come me. C’è chi ha esigenze particolari, per idiosincrasie fisiologiche o mentali, poco cambia.
Mia figlia, per esempio, è intollerante ai latticini. È una delle poche cose precise che so di lei, dalla volta che un’insalatona carica di mozzarelline ci fece finire al pronto soccorso. È stata una delle tante, piccole cose, che ha trasformato una trascurabile crepa formatasi tra me e mia moglie, o meglio: ex-moglie, in una spaccatura che ha diviso le nostre vite. Almeno prima mi odiava. Ora mi ignora e mia figlia la vedo due volte al mese.
Oggi sarebbe stata una di quelle due volte. Sarei dovuto andare a prenderla sotto casa, accompagnarla a scuola, per poi riprenderla e passare il resto della giornata assieme. Una giornata iniziata nel peggiore dei modi.
Sotto casa stanno rifacendo l’asfalto e per non aggravare una situazione traffico già di suo disastrosa, lavorano di notte, aggravando lo stato delle mie occhiaie.
Avendo dormito poco, sono uscito di casa presto con l’idea di comprare la colazione per me e mia figlia, incontrando la prima scocciatura quotidiana: impossibile attraversare la strada. Perché in questa città, se sei un pedone, conti meno di niente. Sei ignorato persino da chi sfreccia a pochi centimetri dal tuo naso col monopattino elettrico, figurarsi da chi viaggia in auto. Nemmeno si voltano, in prossimità delle strisce, a guardare se qualche pedone deve passare. Non è che ti odiano. Ti ignorano.
Comunque, raggiunta l’auto (parcheggiata a quattro isolati da casa, perché son stato fortunato), ho notato un vistoso bozzo accompagnato da una striscia di vernice nera lungo la fiancata. Nessun biglietto sul parabrezza, anche per un semplice “scusa”, giusto per farmi capire che chi ha fatto il danno, comunque, si è dispiaciuto. Ti ignorano, come dicevo.
Accendo e parto. Al primo bar utile mi fermo. Lascio l’auto in doppia fila. Sono costretto, ma per correttezza metto le quattro frecce.
Quando entro nel locale saluto il barista, che chiacchiera amabilmente con un altro cliente e, dunque, mi ignora.
Mi appoggio al bancone, cercando di entrare nel suo spettro visivo. Quando mi nota il suo sguardo dice: “che vuoi? Perché sei entrato a rompermi i coglioni di mattina presto?”.
Dovrei uscire e lasciarlo affogare nella sua miseria, ma mi sforzo di sorridere e chiedo due cappuccini d’asporto, una brioche al cioccolato e una… vegana.
La chiedo senza pensare, ma solo dopo averla pronunciata, quella parola, mi accorgo di quanto strida lì, in quel luogo. Tuttavia, senza scomporsi, il barista risponde: «abbiamo le brioches integrali».
Mando giù un eccesso di salivazione, e dico: «no, non integrali».
Mi guarda, come se il mio contrappunto non lo riguardasse. Al che, con tono serafico, preciso: «guardi, non voglio essere rompiscatole, ma mia figlia è intollerante ai latticini, quindi vorrei una brioche senza burro. Ho detto vegana per semplicità, perché le cose vegane sono fatte senza burro e…». Non riesco a concludere. Le mie parole vengono coperte dal suono nervoso di un clacson.
Penso subito alla mia auto in doppia fila. Mi affaccio fuori dal locale e, come pensavo, ostruisce l’uscita di un’altra.
A gesti chiedo al tizio di aspettare trenta secondi, e in tutta risposta attacca di nuovo la mano al clacson. Mando giù un altro eccesso di salivazione e torno dentro.
Il barista è sempre lì, in piedi dietro il bancone. Non si cura di nascondere l’impazienza con cui vuole liberarsi di me.
Mi porge un involucro di plastica rosa.
Il clacson fuori insiste nella sua impaziente litana.
Trenta secondi, gli ho chiesto. Trenta.
Mi ignora.
«Ora esco!» grido.
«Ecco» fa intanto il barista.
È una brioche confezionata, quella che mi porge.
«Abbiamo queste», dice, «sono senza glutine».
La vista mi si appanna.
**
Probabilmente oggi non vedrò mia figlia. Probabilmente non la vedrò per i prossimi giorni, mesi. Forse anni. Probabilmente la mia ex-moglie aveva ragione: devi imparare a controllare la rabbia. La frase rimbomba in testa con la sua voce.
Amore, mi sento di risponderle, sono i piccoli gesti, l’attenzione verso il prossimo, un sorriso, la cordialità. La gentilezza. Sono le piccole cose a controllare la rabbia. Tutto il resto ci corrode, come gocce d’acqua su una parete di pietra, scavano e scavano e scavano. Solo la rabbia è in grado di riempire quel vuoto.
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