Il problema principale dello scrivere solo ed esclusivamente delle cose che mi succedono non è quello che ci si potrebbe aspettare.
Uno potrebbe pensare che i miei problemi si leghino al fatto che nei miei scritti parlo male, o malissimo, delle persone che mi sono accanto (fidanzate, amici, colleghi di lavoro, colleghi di blog) e che probabilmente quelle persone leggendo quello che scrivo, seppur siano state da me lievemente occultate con degli pseudonimi o cambiando loro alcuni particolari esteriori, si riconoscano in un attimo. Questo, come è logico, è vero e genera nei rapporti con le persone molte criticità se non addirittura liti, o allontanamenti, o denunce. Eppure, come dicevo in apertura, il problema di scrivere auto-fiction è un altro: bisogna vivere una vita interessante, altrimenti non funziona.
Spiego meglio. Da un po’ di tempo molte delle decisioni che prendo nella vita sono prese in funzione di generare poi delle narrazioni. Cose che non avrei nessuna voglia di fare, serate in cui andrei ben volentieri a dormire alle nove, sono cose che faccio per generarci sopra delle storie. Storie che non sono altro che calchi di quelle decisioni stupide, o ridicole, o penose.
Perciò il punto di fare auto-fiction non è tanto capire se sia giusto o meno costruire un racconto su una confidenza che ti ha fatto un amico (ma io non faccio queste cose), o sputtanare la tua famiglia e i loro segreti più torbidi (sì, questo potrei farlo), quanto piuttosto capire come fare a vivere.
Ieri, per esempio, stavo tornando a casa dopo una riunione con i colleghi di In fuga dalla bocciofila. Dopo aver salutato in Borgo Pinti il collega Efisio dicendogli “certo è incredibile, non c’è al mondo quasi niente di più inconcludente che una delle nostre riunioni”, ero a un passo dal rientrare nel portone di casa e immaginavo la mia compagna Romina dormire sul divano, collassata per un mix di alcool e psicofarmaci, e avrei dovuto prenderla e trascinarla di peso nel letto, quando ho visto sulle scale un ragazzo che sembrava piangere, così mi sono avvicinato. Avrà avuto la mia età, e mi somigliava come mi somiglierebbe un fratello (ma io sono figlio unico).
Mi ha detto che era triste, tristissimo, che era un regista di cinema, o quanto meno avrebbe voluto esserlo. Che il suo sogno era quello di fare un film in bianco e nero.
Puoi farlo, gli ho risposto, cosa te lo impedisce?
Ma, rispondeva lui, io vorrei farlo a colori, utilizzando solo oggetti bianchi e neri, girandolo all’alba quando la luce è chiarissima, pitturando i volti dei personaggi di grigio.
Mi sembra una splendida idea, fallo, amico mio.
Già, ma il tema del film, mi diceva lui, mi sembra poco interessante.
E quale sarebbe?
Sarebbe la storia di un uomo che ama molto il calcio, ma poi un giorno smette di sognare che qualcuno faccia un nuovo gol.
In che senso?
Perché ha già visto segnare gol in tutti i modi possibili, e ogni gol è la copia di un gol che ha già visto segnare, e quindi ormai niente, del calcio, gli importa più.
Mi sembra una bella storia, un po’ triste, ma bella, oltre al fatto che la questione finto bianco e nero mi sembra geniale, perché non girarlo? Cosa ti fa disperare?
Devi sapere che ho un problema.
Cos’hai amico, una malattia? Stai morendo?
No, magari, è che io riesco a raccontare solo le cose che mi succedono, quindi questo film non posso farlo perché a me del calcio non frega nulla. Sarebbe un film ridicolo.
Ah, è tremendo, anche per me è così.
Neanche a te interessa il calcio?
No, anche io soffro di quella malattia.
Vuoi dire che sei un regista?
No, sono uno scrittore.
E allora?
Io soffro auto-fiction.
Capisco. E qual è la storia che ti piacerebbe raccontare, ma non puoi scrivere, mi ha domandato il regista.
Vorrei scrivere un racconto dove i personaggi non hanno un nome, ma si chiamano con un numero.
Come nei campi di sterminio?
Esatto, ma qui sarebbe meno tragico, sarebbe il numero totale dei giorni che hanno lavorato in vita loro.
Non capisco.
Fai conto, te da quanti anni è che lavori? Lavori, no?
Sì, lavoro, da circa cinque anni.
Allora ti chiameresti mille e cinquecento, circa. Ecco, ci sono questi personaggi: 1512 e 1601, che parlano tra loro di qualcosa di poco importante, parlano di una strada, di via Edimburgo e come fare a raggiungerla, anzi no, parlano di come una volta 1512 ha fatto innamorare una ragazza che gli chiese: ti amerò se saprai dirmi dov’è via Edimburgo, e lui lo sapeva benissimo, perché di mestiere 1512 era postino, e così i due si erano messi insieme, ma poi la loro storia d’amore finì. Poi in quel bar o su quei gradini dove 1512 e 1601 parlano di queste cose, arriva un nuovo personaggio che si chiama Zero, perché non aveva mai lavorato un solo giorno.
E che fa questo Zero?, mi ha chiesto il regista.
Non so, sarà ricco di famiglia, ma non è questo il punto. Io non so andare avanti nel racconto. Forse 1512 e 1601 si uniranno contro Zero, o lo invidieranno, ma il punto è che questa cosa non è successa, quindi io non posso raccontarla.
Ma forse ti sarà successo, ha detto il ragazzo simile a me seduto sui gradini, intendo di confrontarti con gente che non ha mai lavorato, quindi potresti scriverla.
Sì, è vero, ma come dargli torto, a quei Signor Zero?
È stato allora che ho capito, ieri sera su quei gradini, che il punto non è tanto fare auto-fiction, ma capire come fare a vivere.
Poi ho salutato il ragazzo, convinto che non avrebbe mai girato quel film in bianco e nero sul calcio, mai e poi mai, ma che magari mi sarei ritrovato in qualche cortometraggio del futuro che parlava di uno scrittore e di altra gente che si chiama con un numero.
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